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13 Assassins

Regia: Miike Takashi

Giappone 2010

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“Vorrei farvi conoscere una sensazione di piacere che altrimenti non potreste capire.

Questo è un film di samurai e terrore in grado di mostrarvi i fiori della vita e della morte.

Semplici, radicali e bellissimi”.

 

Molto più di accurate descrizioni e articolate trame, queste parole di commento del regista di 13 Assassini, rendono conto della sinfonia emotiva articolata nelle pieghe del nuovo e straordinario esito figurativo dell’opera di Takashi Miike. Impossibile di certo riassumere in poche righe la filmografia monumentale dell’autore Giapponese: dal suo esordio dei primi anni novanta ha prodotto più di ottanta film, sperimentando e navigando i generi - 13 Assassini riconferma appunto questa sua peculiarità - e organizzando un impianto stilistico unico e riconoscibile, paradossalmente, proprio per la sua sostanziale variabilità e varietà.

Questa radicale mutevolezza, - che non significa assenza di temi, associazioni, connotazioni ricorrenti - lo rende già da tempo, in molti ambienti, un autore di culto a livello internazionale, anche se da sempre relegato ai margini, o meglio, al di sotto, dei confini del cinema mainstream, sia esso quello del circuito commerciale o quello festivaliero. Il motivo è facilmente rintracciabile nella tendenza estrema, contraddittoria e perversa da parte di Miike di calarsi nelle forme del genere per metterle in discussione e miscidarle in un impasto audace e violento, da intendersi nell’accezione più vasta possibile e con un riferimento distintivo e screziato a tutti i colori delle virtù umane. 

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In tal senso 13 Assassini rappresenta la possibilità di cogliere e scoprire Miike per molti elementi caratterizzanti, e allo stesso tempo, vedere in atto l’ennesima svolta del processo creativo di designazione dei generi e diffusione della sua cultura di appartenenza, della quale risente e, soprattutto, si fa precipuo divulgatore.

Questa volta Miike ripercorre la strada del jidaigeki - un genere classico del cinema giapponese (diffuso soprattutto grazie ai capolavori di Akira Kurosawa I sette samurai, La sfida del Samurai ...) che è rappresentazione storica del periodo Tokugawa (1603/1867) e narrazione delle vicende di samurai - e sceglie di riportare sullo schermo l’omonimo film (e primo della cosiddetta trilogia in bianco e nero) di Eiichi Kudo 13 Assassins (Jusan-nin no shikaku, 1963).

La storia è ambientata cento anni prima bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki: il nobile samurai Shinzaemon Shimada riceve in segreto l’incarico di assassinare il crudele signore feudale Naritsugu in seguito alla sua violenta ascesa al potere. Insieme a un gruppo di abilissimi samurai, Shinzaemon progetta un’imboscata per catturare il feudatario. Naritsugu è protetto da un letale esercito capeggiato dallo spietato Hanbei, acerrimo nemico di Shinzaemon, e gli impavidi samurai sanno che stanno per avventurarsi in una missione suicida. Shinzaemon e i suoi uomini trasformano un piccolo villaggio di montagna in una trappola mortale, ma all’arrivo di Naritsugu scoprono che il nemico ha una superiorità numerica di quindici a uno.

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L’epica battaglia dei tredici assassini rappresenta per Miike l’occasione ideale per mettere in scena e dimostrare l’estetica del codice: il codice di genere, teso, strutturato e fedelmente rispettato nella sublime coesione di forme, tono e tipizzazione dei personaggi; il codice del samurai, riproduce il nobile valore culturale di accettazione del destino a cui si è deciso di andare incontro e il dovere di rispettarlo con onore; il codice del cinema, infine, rinvenibile da sempre in Miike come una sorta di rispetto del dispositivo e dell’immaginario che gli sono precedenti, sia esso quello della storia e degli autori, oppure quello della sua visione scardinante, critica, razionale e sempre sottesa a una logica di redenzione dei più deboli o sottomessi. 

Il film ha una composizione aulica nel rigoroso percorso che conduce alla morte ed è costruito seguendo il tratteggio di un costante rapporto di simmetria che si sviluppa su più livelli. In questo modo Miike si cimenta con la fedeltà del remake dell’originale di Kudo, e riflette e fronteggia due schieramenti che riassumono in definitiva due diverse posizioni politiche, morali e generazionali. Una dialettica allievo-maestro che affonda le radici nella cultura nipponica e tesaurizza tutto il suo valore formativo: memorabile la raffigurazione nella battaglia della morte correlata dell’implacabile samurai e del suo giovane allievo e il duello finale che è allo stesso tempo scontro tra due modi di intendere l’onorabilità del codice. Da una parte, la giustizia e il potere inteso come emanazione della volontà del popolo (Shinzaemon), dall’altra la fedeltà assoluta al volere del padrone e il dovere di rispettarla anche se contro i propri valori (Hanbei). Infine Naritsugu incarna il potere degradato, corrotto e abietto contro la compostezza irreprensibile delle norme del samurai. E non può essere un caso nemmeno la descrizione delle datazione degli eventi che rimanda alla tragedia dell’atomica e precede di poco la restaurazione Meiji, eventi che comporteranno entrambi cambiamenti epocali. 

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A ben guardare solo il numero dispari del titolo sembra fuoriuscire da una logica simmetrica. Ed è proprio quell’uomo in più (13 assassini, infatti, ma 12 i samurai), immortale, fantasma, tanuki (creatura mitologica giapponese) forse, che permette a Miike di operare direttamente un critica al modello a cui ha decido di aderire e di imprimere il personale lascito poetico: “il personaggio rispecchia uno stile di vita indipendente e libero, estraneo alle convenzioni sociali. Più che a un uomo potrebbe assomigliare a un animale, che agisce seguendo il proprio istinto senza preoccuparsi della convivenza con gli altri membri del gruppo, e neanche delle rigide regole di comportamento del Giappone dell'epoca”. 

Per Miike il cinema è uno strumento di piacere. E in ogni suo film ci racconta la scoperta di un nuovo ed edenico godimento.

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