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Michelangelo Antonioni: 1912-2007

È vero, raggiunta una certa età non è un evento troppo straordinario la morte di un uomo. È nella nostra natura, lo sappiamo tutti. Michelangelo Antonioni avrebbe compiuto 95 anni il 29 settembre, e da più di vent’anni, a causa di una malattia che l’aveva colpito, aveva progressivamente perso le capacità verbali e motorie. Ma nonostante questo è una scomparsa che scalfisce una certezza, un ancoraggio, e segna ancor di più un limite - che di fatto è già memoria storica, oggetto di studio, e quindi potenzialmente infinito - sul quale è necessario soffermarsi.

Una morte che giunge come una emblematica risposta, o conseguenza, alla medesima sorte che pochi istanti prima, ad altre latitudini, colpiva Ingmar Bergman. Due sguardi che hanno saputo rafforzare le fondamenta del Cinema, lasciando un’eredità imprescindibile, probabilmente ancora sviscerabile, impalpabilmente pervasiva, strutturale e innovativa. 

Antonioni è stato un autore rigoroso, versatile, indecifrabile e lontano da un certo clamore pubblico che riuscivano a riscuotere altri grandi maestri come Fellini, De Sica, Visconti. In lui viveva un germe che, attraverso l’istanza di visione, produceva uno sguardo – della realtà circostante, degli oggetti, delle persone, dei sentimenti, del tempo – attivo, antinaturalistico, penetrante e interrogativo. Ed è in questa peculiarità dello sguardo, inevitabile contingenza necessaria e propulsiva, che si forma il cinema di Michelangelo Antonioni. Un cinema metadiscorsivo, dove avviene una continua interrogazione dello sguardo, che si traduce per lo spettatore in una visione inquieta e dilatata, destabilizzante, perturbante. 

Così operando Antonioni si distacca dalla tradizione neorealista e con la trilogia dei sentimenti (L’avventura, La notte, L’eclisse) e poi Deserto Rosso sancisce quelle che diventeranno delle costanti tematiche, formali, stilistiche di un cinema inconfondibilmente personale e di difficile identificazione. Lo spazio e il paesaggio acquisiscono un’importanza al pari di quella dell’attore e del soggetto: spesso lo sguardo della macchina da presa si sofferma sullo spazio vuoto, in contemplazione, prima dell’arrivo del corpo dell’attore, che si trova a essere materiale plastico plasmabile dal regista, e non interprete di psicologie.

L’occhio dell’autore quindi non è mai passivo, e cerca di andare sempre più a fondo, come fa il protagonista di Blow-up con i suoi scatti. E’ dalla metà degli anni ’60, proprio con Blow-up e poi Zabriskie Point e Professione: reporter, che Antonioni allarga l’orizzonte dello sguardo verso nuove terre, passando per la Swinging London e le università americane, e forzando ancora di più l’interrogazione di quella realtà che sempre più si manifesta come irriproducibile e ininterpretabile univocamente. 

La narrazione, del resto, non può che adeguarsi alle rarefazioni che dominano la visione: dialoghi intermittenti, dove spesso si parla d’altro o niente di così importante, salti percettivi, camminate senza meta, sparizioni e quindi la presenza di una assenza.  E’ tutta l’eredità che ci ha lasciato il maestro – che comprende oltre ai lungometraggi, documentari, corti e mediometraggi, sceneggiature, opere incompiute, articoli di critica cinematografica – a costituire il limite dentro il quale il cinema ora è costretto a muoversi. Un limite che probabilmente, visti i tempi, sarà difficile superare. Ma che ha dato e darà un’importante lezione. Ne sono un esempio: Wong Kar-Wai, Patrick Tam, Nuri Bilge Ceylan, fino ad arrivare al recente Come l’ombra di Marina Spada. 

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