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Boys on the Run

Regia: Miura Daisuke

Giappone 2010

E’ presumibilmente tutta una questione di sensibilità, di percezione e ricostituzione mai ovvia dei sentimenti pressoché limiti dei quali disponiamo, e - in definitiva - di sguardo sulle costanti inevitabili della natura umana, dalle componenti rimarchevolmente discrepanti, se, nel cinema giapponese, è possibile coniugare la estrosa e prolifica tradizione del manga con le esigenze di realtà dei tradizionali generi cinematografici quali la commedia e il dramma. Non certo una novità per le produzioni made in Japan, e anzi, il più delle volte, una necessaria derivazione per garantire visibilità e successo tra il pubblico, il quale, senza distinzioni di età e sesso, dimostra di prediligere, e ancor più precisamente, di avere un legame famelico con il fumetto e l’animazione.

Di fatto attraverso questi due territori espressivi è possibile rintracciare lo snodarsi di qualunque possibilità e modalità di interazione e attrazione figurabile dall’immaginazione, in ogni sorta di variabilità tematica, illustrazione espositiva, declinazione d’animo, desiderio interdetto e interpretazione antropologica. E dunque, quel che rappresenta un attributo culturale specifico, a ben vedere, ricopre e palesa una carica e una funzione in qualche modo assente nella cononica ritualità cinematografica, rintracciabile probabilmente nella palese ed eccentrica razionalizzazione estetica, da parte dei suoi personaggi, delle proprie reazioni intime e impronunciabili, ma così effettivamente inseribili in un processo identificatorio ad ampio spettro e di forte impatto. 

Miura Daisuke, trentacinquenne regista e drammaturgo indipendente, giunto con Boys on the Run al suo terzo lungometraggio (dopo First love, 2003, e Soul train, 2006), dimostra essenzialmente di riuscire a manipolare i generi più diversi, e soprattutto ad estrarre da essi gli elementi necessari per formare una sintesi personale, in continuo dialogo tra le molteplici sfumature del comico, della commedia, e infine del dramma. Proprio come avviene spesso nei manga.

Del resto infatti, Boys on the Run è tratto dal manga omonimo di Hanazawa Kengo, storia all’apparenza semplice e scontata del giovane Toshiyuki Tanishi, umile venditore per una piccola azienda che produce i giocattoli con cui vengono riempiti i distributori automatici, ossessionato da Chiharu, la collega più carina, ma incapace di stabilire una relazione con le donne, e dunque ancora vergine, e costretto a vivere in casa con i genitori.  In sostanza emblema di un inveterato fallimento. Ma dietro a questa inerte esuvia da perdente, si nasconde l’anima di un lottatore: quando un venditore concorrente bello, disinvolto e senza scrupoli gli soffia Chiharu (che incredibilmente aveva iniziato a ricambiare il suo interesse), Tanishi non può resistere al desiderio di vendicarsi, e dimostrare la sua volontà. E per farlo deve, prima di tutto, imparare a fare a pugni.

Ma Boys on the Run non è un film simbolico sulla rivincita dei nerd. Il destino di Tanishi è tutt’altro che scontato e prevedibile. Ciò che conta per Miura è l’intenzionalità scaturita dai sui personaggi, e l’intensità dei sentimenti che li animano. Inattesi, imprevedibili, cangianti e tuttavia mai patetici, quanto all’apparenza sopiti e indolenti. Attorno al protagonista ruotano figure eccentriche come il collega ubriacone, improvvisato e insospettabile insegnante di boxe, e la prostituta non più adolescente, sorta di sbandato feticcio materno e coadiuvante del trofismo sessuale per giovani innamorati, grazie all’aiuto dei quali si instaura in Tanishi un meccanismo di riflessione che lo porterà alla rivolta e al cambiamento.

Quel che è certo, nessuno dei personaggi di Boys on the Run è dispensato da un’ingloriosa delusione per la propria vita. Ed è proprio per questo che, alla fine, non sarà possibile catalogarli su piani morali di correttezza o malvagità: non ci sono buoni o cattivi, e niente di per sé è giusto o sbagliato.

La sofferenza, decorosa e negata, identifica la vera costante per il mondo creato da Miura, ed il sesso ne è il principale organismo scatenante. La componente sessuale è rappresentata senza alcuna verecondia, né sentimentalismo né dolcezza né sdilinquimento, in tutto il suo necessario ed eccitante squallore, e allo stesso tempo mistificata da un realismo demenziale e dissacrante. Ecco allora che emerge la cifra comica: si ride, molto, improvvisamente, colti di sorpresa. E’ con questi elementi che Daisuke Miura scompagina i generi ed è nel versante buffo che si costituisce, irrazionalmente forse, la completa identità dei personaggi; esattamente come accade nel fumetto giapponese. Sarebbe quanto mai rischioso rapportarsi a questo film senza considerare il filtro iperbolico e vincolante di questo riferimento ipertestuale. Così come non si potrebbe apprezzare appieno l’interpretazione del protagonista Mineta Kazunobu (visto anche nella commedia adolescenziale sulla ricerca del mitico “free secksu” - l’amore libero, siamo negli anni Settanta - Oh, my Buddha! di Taguchi Tomorowo, in cui interpretava l’hippie Hige Godzilla, Godzilla Barbuto), autentico materiale plastico da conformare, espressione debordante di un trasformismo in grado di far convivere nel proprio corpo orgoglio e crudeltà, dolore e tenerezza, rabbia e imbarazzo. Il suo Tanishi, eludendo prudentemente la compassione, realizza il percorso di affermazione e redenzione di un’identità qualunque, marginale, comune, senza qualità che le possano permettere di renderla diversa o speciale o distinguibile all’interno di un sistema sociale saturo e costantemente alla ricerca dell’elemento elitario, nonché della classica prevedibile incarnazione di forza e bellezza. Pazienza se l’esito si rivelerà poi amaro e imprevisto.

Tanishi non rappresenta un modello di speranza, piuttosto la possibilità di un’alternativa, che non equivale mai alla soluzione, ma al tentativo che può modificare il contesto. Nonostante Tanishi continui, dopo tutti gli sforzi, ad essere un perdente, alla fine è nettamente un uomo diverso. Tutto porta a pensare che la sua vita non sarà diversa, ma l’approccio ad essa gli permetterà di prendere delle decisioni diverse. E questo costituisce un radicale cambiamento.

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