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Arrivederci Dragon Inn (Bu San)

Regia: Tsai Ming-Liang

Taiwan 2003

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Tsai Ming-Liang è un autore affermato già da tempo e non è estraneo ai festival e ai premi. Nel 1994 è stato premiato con il leone d’ora a Venezia per Vive l’Amour, nel 1996 a Berlino per The River (Il Fiume) e nel 1998 a Cannes per The Hole (Il Buco). Molto atteso quindi, ha presentato quest’anno al Lido il suo nuovo lavoro, Bu San (Arrivederci Dragon Inn). Un cinema, quello del regista taiwanese, rigoroso e ricercato, lontano dagli stereotipi di genere, sia orientali sia, e soprattutto, occidentali. Un cinema che richiede impegno da parte dello spettatore, e un coinvolgimento che lunge dall’essere quel mero passatempo (televisivo magari) che sempre più spesso il pubblico va ricercando. Il che lo rende un autore di nicchia, non molto conosciuto dai più ma molto apprezzato dal popolo festivaliero. E con Bu San, ancora un volta, Ming-Linag ribadisce lo sua idea di cinema, estremizzandone i tratti distintivi, spingendosi letteralmente dentro al cinema stesso, come luogo, fisico e dell’anima, e come passione. 

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Dragon Inn è il titolo del capolavoro del 1966 di King Hu, il maestro capostipite del cinema di Hong Kong (assieme a Zhang Che), autore del magnifico A Touch of Zen (1969), il padre del cinema di cappa e spada e, per intenderci, dei mirabolanti combattimenti e degli scontri fisici che prevedono salti oltre le leggi della gravità, riproposti, e portati alla ribalta, anche da Hollywood recentemente in film come Matrix e La Tigre e il Dragone. 

Ed è proprio Dragon Inn l’ultimo film proiettato dal cinema Fuhe prima di chiudere i battenti ed essere demolito. All’esterno imperversa una pioggia incessante e un ragazzo, per ripararsi, entra nella vecchia sala. Sembra tutto deserto ma lentamente (molto lentamente, quasi in tempo reale) veniamo a scoprire i personaggi che lo popolano: la bigliettaia claudicante e il giovane proiezionista, che lavorano assieme da anni senza trovare la possibilità di incontrarsi.

Due anime racchiuse dentro un universo fatto di solitudine, pervaso dalla malinconia che riecheggia dai fasti di un tempo che non c’è più, quando la gente si accalcava per vivere un’emozione comune. Ora in sala, però, non c’è più la folla di un tempo e ritroviamo dei corpi sperduti, vaganti timidamente da un posto a sedere all’altro, come quello del giovane gay in cerca di compagnia, o spaesati, come quello di uno degli spettatori occasionali che sporadicamente si susseguono o, addirittura fantomatici, come la presenza dei protagonisti stessi del film Dragon Inn (Shih Chun e Miao Tien) seduti in platea, oramai vecchi e piangenti. 

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Ming-Liang amalgama con raffinatezza la realtà (il cinema Fuhe alla periferia di Yonghe era davvero un cinema che presto sarebbe stato demolito, ed era davvero diventato un ritrovo per gay), la metafora e la nostalgia e porta sullo schermo quello che è, prima di ogni cosa, un atto d’amore verso il cinema della propria giovinezza. Il film è praticamente privo di sceneggiatura, otto battute che, paradossalmente, dicono tutto: “questo cinema è infestato dai fantasmi”, sentenzia il proiezionista quando incontra il solitario ragazzo gay. E ci sembra già così chiaro. Attraverso i suoni, così finemente giostrati, come il rumore dei passi, il picchiettare incessante della pioggia (tanto cara al regista, quasi un segno inscindibile del suo cinema, già presente in The Hole), il brusio del muoversi meccanico dei personaggi in sala e delle azioni più comuni, e soprattutto, i dialoghi, le urla, i combattimenti del film che si sta proiettando, Ming-Liang riempie quel vuoto infinito che occupa la sala.

 

Bu San è carico di tutta la nostalgia e di tutta la passione che porta con sé il regista. Un film che vive della magia stessa che è il cinema, che gode del tempo della riflessione e affida ai silenzi infiniti ciò che non potrebbe, probabilmente, essere espresso dalle parole. Laconico , come già ci aveva abituato il regista taiwanese con i suoi lavori precedenti, ma questa volta al limite del cinema muto. E tutto attraverso uno stile apparentemente semplice, fatto di lunghissimi piani sequenza con camera fissa, incursioni dell’occhio afflitto dentro i luoghi vuoti, bui e umidi del fantasma-cinema. “Non ci ricorda più nessuno” dichiara con le lacrime agli occhi il vecchio attore protagonista di Dragon Inn alla fine dello spettacolo. E a noi ”rimane l’amore”, come dicono le parole della canzone sui titoli di coda. Ultimo, chiaro, nostalgico messaggio, dedicato alla stessa, squallida fine di tanti cinema delle nostre città, trasformati, davanti ai  nostri occhi esterefatti, in luccicanti mausolei del consumismo più sfrenato.

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