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Café noir

Regia: Jung Sung-il

Corea del Sud 2009

“Studia bene il violino, Alphonse: se studi e hai talento diventerai un grande musicista”.

“E se non lo faccio?”

“Se non studierai e prenderai molte stecche farai il critico musicale”.

 

Con questo dialogo tra Antoine Doinel e il figlio in L’amore fugge, François Truffaut ironizzava su un ruolo (quello del critico) che di fatto gli è sempre appartenuto e ben conosceva, e su un mondo (quello della critica) disilluso, probabilmente immerso in qualche strato di frustrazione, variante fine a se stessa di un desiderio irresoluto.

Al di là del gioco, esiste la possibilità - come ci ha dimostrato Truffaut e gli altri autori della Nouvelle Vague - che sia possibile una critica a(lterna)(t)tiva, con la quale è possibile misurarsi, conoscere, formare una visione dell’insieme per definire una personale esigenza creativa. Una necessità che richiede di essere soddisfatta e porta il critico a scegliere di essere il demiurgo delle proprie fantasie pulsionali nonché l’artefice dell’oggetto da sempre conteso. 

Café noir è l’esordio alla regia di Jung Sung-il, un famoso e stimato critico cinematografico coreano (tra 1989 al 1999 è stato redattore capo di “Road Show” e “Kino”, le più importanti riviste specializzate in Corea, poi coordinatore per la Korean Academy of Film Arts, per il Pusan International Film Festival e per la cineteca di Seoul) e ora autore dell’opera certamente più enigmatica, seducente, introspettiva, raffinata e intellettuale vista a Venezia 66.

Il racconto trae origine da due romanzi chiave nella letteratura sui sentimenti: Le notti bianche (1848) di Fëdor Dostoevskij e I dolori del giovane Werther (1774) di Wolfgang Goethe. Due opere con al centro l’amore, profondamente agognato e indispensabile ma fatalmente inaccessibile, immerse e rielaborate in un universo di figure, suoni, colori, parole, sincretiche, attuali e ineccepibili. Il protagonista è sempre un insegnante elementare. Nella prima parte soffre per il suo amore proibito, madre di una sua piccola allieva e moglie di un soldato rozzo e brutale. Vaga per la città cercando una fuga al dolore, si intrattiene con una collega follemente innamorata di lui, la quale, per gelosia, scrive lettere anonime indirizzate al marito dell’amante rivale. Nella seconda parte l’insegnate incontra una giovane donna in attesa del ritorno del suo amore, il quale le ha promesso di tornare dopo un anno e sposarla. Ora l’anno è passato ma lui non è ancora ricomparso. Il maestro decide di ascoltare le pene d’amore della ragazza: entrambi stanno aspettando i rispettivi amanti che non fanno ritorno.

Le due parti sono chiaramente divise e legate da un raccordo ambientato dentro una libreria in cui si vede il protagonista prendere dagli scaffali i due libri dai quali è ispirato il film stesso. Attraverso questo espediente il personaggio è come se si mostrasse in una veste extradiegetica, cosciente del proprio ruolo di moderno Werther-Sognatore, e il suo sguardo si posasse sul déjà vu dell’esistenza umana. La forma assume così un’importanza strategica laddove le storie si ripetono circolarmente: in Café noir ogni elemento segue un andamento preciso, rigoroso e ponderato, predisposto su un terreno dall’elaborato impianto teorico, connubio interdipendente di simbolico e immaginario.

Nella messa in scena non passa mai in secondo piano l’ambiente (la Natura) entro cui si muovono i personaggi: la città di Seoul nei suoi incantevoli e desolanti scorci sembra riverberare intimamente la disposizione dei sentimenti degli esseri umani che la popolano. Il richiamo - non a caso - alla Nouvelle Vague è sacrosanto: il parlare d’amore lungo le vie di Seoul ricorda nitidamente i colloqui rohmeriani (ma non solo) per le vie di Parigi o seduti al tavolo di un caffè o a una panchina. Ma allo stesso tempo Sung-il è strettamente legato al cinema coreano d’autore, proprio quello conosciuto grazie ai festival anche in Europa, omaggiato più o meno palesemente e ironicamente in più sequenze, e rintracciabile nell’uso specifico della parola e della sua assenza, nella propagazione del tempo, dell’attesa, del respiro.

Tecnicamente il quadro (catturato su supporto digitale) non offre mai la polarizzazione di un unico punto di visione e la profondità di campo ricopre un’importanza evocativa unica e imprescindibile, i suoi movimenti sono calcolati con severità matematica, l’illuminazione sembra condensare e raffreddare i corpi in fotografie antinaturalistiche (i colori e il bianco e nero si susseguono) che compongono piani sequenza prolungati nell’attesa incontrovertibile di un rapimento estatico. 

Dopo centonovantasette minuti il registro sublime e sentimentale sopravvive inalterato e la sensazione di abbandono domina lo spettatore imperituro. Un abbandono puro e totale alla pervasività della bellezza travolgente dell’amore per il cinema. Una distensione degli occhi che consente di guardare attraverso il cinema per arrivare a capire il mondo.

Il tempo morto del film è il tempo reale in Corea, il tempo in cui dimora la nostra disperazione”. Una disperazione che è la sinfonia dell’animo umano trafitto dalla passione, catartica e universale, legame viscerale, degli occhi del cinefilo per la propria vita sullo schermo.

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