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Capitalism: A Love Story

Regia: Michael Moore

USA 2009

Se ci fosse permesso di assistere al meticoloso e caliginoso funzionamento del sistema limbico probabilmente avremmo una cognizione visceralmente autentica della reale struttura delle emozioni o perlomeno degli stati di alterazione verso i quali è soggetto il corpo umano. La manifestazione esteriore dei sintomi legati all’introiezione e allo sviluppo di un impulso emozionale il più delle volte appare una scadente interpretazione di immagini consumate e impersonali di cui difficilmente si può far tesoro per decifrare intimamente la natura produttrice di un qualche turbamento.

Il cinema è in grado - per ragioni più e meno evidenti e attraverso modalità che rimarranno, può darsi, sempre oggetto di indagine - di instaurare una connessione privilegiata con lo strato selettivo del cervello deputato a rispondere, in generale, del nostro vincolo affettivo. E quindi, in un certo senso, la partecipazione all’esperienza della visione mette lo spettatore in una condizione segretamente critica e ambigua: tanta è la consapevolezza - da una parte - di essere distaccati, protetti, testimoni inermi di una rappresentazione, quanta è - dall’altra - la capacità di penetrazione delle immagini, capaci di spingersi fino a corrodere la solida e recalcitrante scorza di zelante controllo ed estenuante attesa di cui si fortificano gli occhi di fronte al gorgo cinematografico. 

Sul piano dell’espressione, il cinema, approfittando della forma documentaristica, e dunque mediante il tangibile riconoscimento identificatorio operato dalle immagini catturate da un qualsiasi condiviso e riconosciuto presente, instilla consapevolmente un dispositivo ritmico di stimolazione sinaptica che induce il nervo ottico a smascherare quell’inconscio agire proiettivo dell’intera e globalizzata massa civile di fronte alla concreta esposizione dei fatti della nostra storia.

Ed è quanto sembra aver compreso appieno Michael Moore, il quale da vent’anni propone con stoica pervicacia la sua analisi dissacrante sul suo paese, e proprio in onore del ventesimo anniversario del suo primo film (Roger & Me), ritorna ad affrontare gli effetti disastrosi prodotti dal dominio delle grandi aziende sulla vita quotidiana degli abitanti degli Stati Uniti e del mondo intero.

 

In Capitalism: A love story Moore non modifica lo stile caratterizzante del suo incedere investigativo, tuttavia attribuisce alla sua incombente figura il ruolo dello psicopompo, conducendo la nostra attenzione in un doloroso viaggio in un mondo sfasciato dalle derive egemoniche del denaro, corrotto da un sistema economico sottilmente e astrusamente devastante, incapace di comprendere e salvaguardarsi dall’abbandonarsi al sogno del benessere e dove “il contrasto fra i valori della democrazia e del capitalismo e la contrapposizione tra l’etica cristiana e il capitalismo non si possono più ignorare”. La progressione degli eventi dilaga in un avvicendamento relazionale - e non a caso, comprendendo tutte le fasi dell’innamoramento e del disgregamento della storia d’amore - mosso dagli ideali fulgenti di speranze eterne offerti dal capitalismo, fino a giungere alla scoperta di un tradimento annunciato e agli esiti personali pagati dalla gente che ha abbracciato quel sistema economico e sociale. Quella stessa gente che (soprattutto in America) non conosce e non capisce fino in fondo lo stato in cui si trova, e la stessa gente a cui si rivolge Moore esemplificando con estrema chiarezza i passaggi del dramma del tracollo finanziario globale, e il prezzo altissimo pagato dagli americani a causa del loro amore per il capitalismo.

Ebbene, se il percorso nel tartaro in cui è sprofondato l’opulento mondo consumato dal predominio delle banche e dei grandi gruppi finanziari sembra essere destinato a proseguire inesorabilmente verso l’obsolescenza, con questo film si innesca, in un montare silente quanto irreprimibile, uno sfogo emotivo e l’impulso radicale all’insurrezione, democratica e culturale, invocata da Moore come unica possibilità di redenzione. In questo modo il regista di Flint infrange quel vincolo consolidato del cinema con il pubblico e permette il dispiegamento diretto degli effetti erotti dalle sue immagini. Invita tutti a rendersi conto di quale perturbamento può portare decidere di vedere, e constatare l’assenza di un qualsiasi banale scarto tra cinema e vita. Invita ad adoperare invece quelle armi di cui può essere munito ogni spettatore intorpidito, e dunque abdicare la sacralità del ruolo testimoniale per assumere quello del protagonista. 

Poiché ci è concesso solamente osservare l’esito prodotto da un qualche effetto, restare indifferenti all’appello significa - con un’ipotesi tutt’altro che avanguardistica - constatare la presenza di una carenza, un’occlusione (ideologica?), una sospensione dell’attività dei neuromediatori del circuito limbico. Partecipare allo sviluppo funzionale di aspetti tali per importanza da permettere un cambiamento della realtà è plausibilmente il carattere effettivamente eversivo di Capitalism: A love story. Ed è per questo che Michael Moore non rinuncerà mai al suo ibrido guardare, e resterà ancora una necessaria e invitante fonte di discussione e controversie. 

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