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Gli infiniti mo(n)di di David Cronenberg

 

La visione di David Cronenberg non può lasciare, mai, lo spettatore indifferente. Vedere un film di Cronenberg è come ampliare lo sguardo ed addentrarsi, abbacinati, verso una criptica camera oscura che ci conduce nel percorso fosco e spinoso di un regista, attraverso la sua personale e lacerante estasi, che compenetra la realtà di allucinazioni ed emozioni. Un Autore pertinace, discutibile, provocante, impetuoso e visionario come pochi altri, il più delle volte accatastato agli antipodi, disdetto e lodato. 

Cronenberg costituisce l’appartenenza ad un (sub)genere proprio e viscerale, filosoficamente teorizzabile e visivamente spiazzante. La realizzazione del suo genio avviene, dopo gli studi universitari in letteratura, là dove è nato e cresciuto, in Canada, terra desolante e pacifica, terreno fertile per fascinazioni angoscianti sulla degenerazione dei corpi, sulla contaminazione e verso un pessimismo te(m-rr)ibile. Realizza due lungometraggi a partire dal 1969, Stereo e Crime of the future (mai distribuiti), dove mette già in chiaro le tematiche, o meglio, le ossessioni alle quali farà riferimento, sviluppandole, nelle opere seguenti: la scienza che opera geneticamente sugli individui creando effetti incontrollabili e “contagiosi” e e il sesso come attrazione morbosa e veicolo di morte. 

Il primo lungometraggio ad essere distribuito è, nel ‘75, Il demone sotto la pelle. La vicenda si svolge su un'isola dotata di un complesso residenziale e collegata alla città con un ponte. All'arrivo di una coppia tutto sembra tranquillo, fin quando un morbo (una specie di verme che vive come parassita nei corpi umani) inizia a diffondersi. Dopo gli inutili tentativi di un medico di fermare il contagio, le vittime ormai capaci solo di inaudita violenza e di comportamenti sessuali sfrenati, si dirigono verso la città...

E’ chiaro qui, e in seguito più che mai, come l’assunzione del genere horror faccia parte, inevitabilmente,  dell’idea scenica e vitalistica di Cronenberg. L’horror che non rimane solo inutile profusione di effetti stomachevoli (e non ci vengono, infatti, risparmiati sangue, penetrazioni, lacerazioni...) ma discorso teorico e non univoco dove lo splatter è il mezzo necessario per “mostrare” la verità (che non è certo la realtà) insita nell’interpretazione della stessa. 

 

Rabid - Sete di sangue (1976) prosegue, nella sua confezione di horror di serie B, con le ossessioni generate dagli esperimenti scientifici sull’uomo.

In seguito ad un incidente in moto, Rose viene ricoverata in una vicina clinica a causa delle gravissime ustioni riportate, non sapendo che in quel posto vengono effettuati degli esperimenti sulla pelle umana. Dopo il risveglio, la ragazza, fuggita dalla clinica e sempre più assetata di sangue, si aggira per la città in cerca di vittime per mantenersi in vita.

La presenza della pornostar Marilyn Chambers sottolinea la matrice sessuale dell’angoscia di Cronenberg che qui si fa in qualche modo sempre più “dramma”. Quindi non solo horror del contagio epidemico e del sesso nefasto ma anche prima(esile) parvenza dell’attenzione psicologica sul destino dell’uomo che si presenterà in seguito con risultati indubbiamente originali. 

E’ infatti con Brood (La covata malefica) che l’attenzione di Cronenberg vira verso la ritualità e la maniacalità dei soggetti, sull’ansia sprigionata dalla follia, apparentemente, inspiegabile.

Quando Frank Carveth si accorge che la figlia ha subito delle violenze cerca di indagare sul tipo di terapie utilizzate dallo psichiatra della moglie, Nola. Intanto si verificano degli omicidi. Le vittime sono tutte persone legate a Nola: i suoi genitori e la maestra della figlia. Gli assassini sono delle creature partorite da Nola che riescono a rapire anche la figlia. Frank Carveth riesce a salvare la bambina e ad uccidere la moglie ormai pazza, ma nel corpo della piccola iniziano strani mutamenti...

Si ripresentano le immagini che hanno contraddistinto il regista ma accresce l’inquietudine verso l’uomo e il mondo. Attraverso una lente deformante vengono riflesse rabbia e incubi che vengono prontamente rappresentati e perciò resi più lancinanti. 

Darryl Revok, direttore di una società farmaceutica cerca di formare un vero e proprio esercito di uomini dotati di poteri telepatici, gli scanners. Il centro dell'attenzione si sposta sull' Ephermol, un tranquillante in grado di lenire le sofferenze a cui sono soggetti gli scanner e di riprodurre scanner se iniettato a donne partorienti. A lui si contrappongono il dottor Ruth e Cameron Vale, unico scanner capace di contrastare Revok per la forza dei suoi poteri. Solo prima dello scontro finale, emerge che i due sono fratelli e figli del dottor Ruth, inventore dell'Ephermol.

Basta poco a questo punto per comprendere l’essenza di Scanners (1981) che riprende, rielabora e riassume tutti i temi cari al regista fin dagli esordi inediti. Di nuovo incentrato sulla scienza e sulla mutazione, Scanners si fa apprezzare soprattutto nella visione, attraverso gli effetti speciali e l’abilità a coniugarli con la tensione sempre desta. 

Videodrome (1982) rappresenta una piccola maturità per Cronenberg. Eludendo i meccanismi propri dell’horror rientra nella fantascienza e firma di suo pugno una sceneggiatura che a posteriori si può considerare a suo modo profetica, anticipando ciò che il mezzo televisivo sta diventando in questi anni.

Uno dei proprietari di una piccola TV locale, Max Renn, è interessato ad un tipo di programmazione che porti il telespettatore al limite delle emozioni. Per caso riesce a rintracciare una rete televisiva che trasmette immagini di inaudita violenza. Entra così in contatto con il messaggio Videodrome, un programma che si appropria del cervello e viene contaminato. Decide di combattere il programma con un altro video-messaggio, ma finisce con il suicidarsi nello scontro finale.

Il televisore come estensione della mente e del corpo dell’uomo e portatore di una nuova realtà: questo è Videodrome. Una descrizione di un futuro pessimistico e degradato dove ogni battaglia, o ogni ribellione, ci condurrà alla stessa fine del protagonista. 

Ma la svolta arriva nel 1983 con La zona morta, prima pellicola americana e sceneggiatura a partire da un romanzo di Stephen King.

Dopo essere uscito dal coma durato cinque anni, il professore Johnny Smith si accorge di avere dei poteri soprannaturali: riesce a vedere il passato e il futuro delle persone con il semplice contatto. Contribuirà ad individuare uno psicopatico che uccideva studentesse, ma la sua vita sarà sconvolta dall'incontro di un politico presentatosi alle elezioni per la Casa Bianca. Tramite i suoi poteri capisce che l'uomo, nel caso diventasse presidente, porterebbe gli Stati Uniti al disastro atomico e allora tenta di ucciderlo durante un comizio.

Probabilmente questo film sfugge ad ogni determinazione di genere e proprio in questa caratteristica sta il suo fascino. Cronenberg si prende una pausa dai deliri e dalle allucinazioni carnali e si concentra sulla figura di un personaggio (il protagonista, interpretato magnificamente da Chistopher Walken) racchiuso nella sua condizione di solitudine anche di fronte alla popolarità  che porta solo sofferenza e disagio. Anche il tocco di Cronenberg è mesto, ma non privo di un’inaspettabile e fine sensibilità. 

Con La mosca (1986) Cronenberg ritorna nuovamente all’horror ma questa volta prodotto con i soldi di una major hollywoodiana e con attori professionisti (Jeff Goldblum e Geena Davis).

Un giovane scienziato lavora ad un progetto di teletrasporto della materia. Dopo aver effettuato delle prove con oggetti inanimati, decide di continuare le sperimentazioni su creature viventi ed invita una giornalista ad assistere. Tra i due nasce qualcosa e dopo un malinteso, lui, ubriaco e geloso, decide di mettere in atto gli esperimenti su se stesso. Si chiude nel macchinario, non accorgendosi della presenza di una mosca, innescando così un processo di fusione tra le sue molecole e quelle dell'insetto, che lo porterà ad una progressiva trasformazione.

La mosca è il remake di un film del 1958 di Kurt Neumann, L’esperimento del dottor K, tratto da un racconto di George Langelaan, dove Cronenberg ha la possibilità di mettere in scena le mutazioni e, in questo caso, le fusioni dei corpi e dei sentimenti, rappresentati dalla relazione dei due protagonisti. L’orrore è la modificazione graduale del corpo umano in insetto spaventoso e l’impossibilità del compiersi dei sentimenti. Straziante e poetico. 

Trae spunto da un fatto di cronaca raccontato nel romanzo Twins di Barri Woods e Jack Gaesland, Inseparabili (1988), pellicola che vede Jeremy Irons straordinario interprete di Elliot e Beverly Mantle, fratelli gemelli, ginecologi e ricercatori di grande fama spesso complici dello scambio nei loro ruoli anche con le donne. Il rapporto tra i due fratelli entra in crisi quando Beverly, il più fragile si innamora di un' attrice, conosciuta per una cura. Non potendo sopportare la separazione dal fratello, ed essendosi rivelati inutili tutti i tentativi di Elliot di scongiurare la rovina, lo trascinerà con sé nel vortice della pazzia e della droga, fino all'ultimo gesto disperato.

Cronenberg dà una magnifica prova della sua ambigua sapienza tragica e sentimentale senza sovrabbondare con effetti speciali ributtanti (riservati agli incubi...) e riservandosi la possibilità si ammaliare con il fascino soffuso della tentazione e della dissoluzione che l’amore, la gelosia, l’attaccamento possono provocare nell’uomo. Una creazione chiaramente distinguibile per le peculiarità del regista ma opera rinnovata e arricchita nel panorama delle suggestioni cronenberghiane. 

Il paso nudo (1992) è la libera rappresentazione delle allucinazioni e del mondo delirante raccontate dall’omonimo libro di William Burroughs, viaggio devastante tra i generi, commistione di immaginazione e realtà e vaneggiamenti sotto l’influsso della droga.

E’ la storia di uno scrittore in preda ad allucinazioni (scarafaggi giganti, alieni..) che uccide la moglie, fugge a Tangeri e si ritrova coinvolto in misteriosi complotti. Cronenberg trova pane per i suoi denti nella narrazione visionaria di Burroughs massimo esponente della Beat Generation e fautore di recondite paure. Devia la possibilità di comprensione logica da parte dello spettatore e ci mostra gli effetti esaltati della mente dello scrittore. 

Abbandona completamente ogni effetto speciale, tralascia il gore e lo splatter e, nuovamente, ci stupisce, Cronenberg, mutando lui stesso, ogni volta, tipologia e materiale narrativo. Con M. Butterfly (1993) raggiunge il livello più alto di coinvolgimento e di lirismo, come si addice al titolo  dell’opera pucciniana.

Cina 1964: un diplomatico francese, Renè Gallimard, dopo aver assistito ad una rappresentazione della Madama Butterfly, si innamora della cantante, che ritiene essere l'incarnazione della donna perfetta. Per lei lascia la moglie, compromette la carriera per poi scoprire che è un uomo e una spia ed essere arrestato, infine, per tradimento.

Ancora una volta si tratta di una storia vera (come in Inseparabili) e, ancora una volta affida il ruolo dilaniante del diplomatico a Jeremy Irons (come in Inseparabili). Tutto è incentrato sui turbamenti amorosi e in seguito,  per questo, distruttivi di Gallimard sui quali Cronenberg costruisce il melodramma, definitivo e perfetto, già più volte accennato e desiderato. Dolorosissimo per la lucidità con la quale, meditatamente, si compie lo stravolgimento dell’esistenza di un uomo che ancora una volta  muta, ma non fisicamente, e viene assorbito dal proprio incubo. Una visione della donna e dell’Oriente assoggettate e soggiogate, l’amore come rovina e attesa perplessità. Cronenberg dipinge scenari della mente congelati ma la conclusione, tragica, del suicidio in carcere è una delle scene più commoventi che siano mai state viste. 

Si discosta nuovamente, non si ripete Cronenberg, legge Crash di James G. Ballard, ne viene immancabilmente attratto e decide di portarlo sullo schermo. Crash (1996) è il ritorno alla fantascienza pessimistica e alla sessualità degradante.

Argomento centrale è il piacere perverso e morboso di un giovane pubblicitario scoperto per caso dopo un incidente d'auto. Trae piacere dagli incidenti stradali a tal punto che anche la morte diventa il culmine del desiderio sessuale. Personaggio chiave è Vaughan che ricostruisce dal vivo incidenti in cui sono state coinvolte persone famose e in grado di spingere tutti in questo gioco autodistruttivo.

E’ un racconto di morte e di piacere, di nuove ed inesplorate vie che coinvolgono la distruzione e la soddisfazione del corpo attraverso il dolore generato dalla macchina, veicolo di congiunzione di eros e thanatos. L’aria che si respira appare gelida e i colori caldi quasi ricoperti da un manto di brina: è il sopraggiungere della liberazione, della morte. Nulla è lasciato all’immaginazione, nulla ci è privato, ogni pensiero nostro, loro è calcolato. I corpi distrutti, le cicatrici, le lacerazioni sono a nostra disposizione come già Cronenberg ci aveva abituato (o ossessionato?) ma, passando per il disgusto magari, si viene magneticamente attratti. 

Sempre fantascienza e sempre materiale organico anche alla base di eXistenZ (1999). Con questo film Cronenberg ritorna al disfacimento della realtà (come, del resto, lo stesso Crash proponeva...) ma con una rinata vena ironica che sembrava essersi dissolta.

eXistenZ è un videogioco di realtà virtuale connesso al sistema nervoso umano attraverso un pod di carne, ideato da Allegra Geller: lei stessa, salvata da un attentato, sarà costretta a giocare all’interno della sua creazione e affrontare un serie di situazioni spiazzanti ma fittizie.

Cronenberg scrive interamente il soggetto a partire da una sua idea e decide di girarlo semplicemente senza troppi mezzi. Elimina la forte angoscia di fondo delle sue opere precedenti e benché non se ne traggano troppe aspettative positive, tutto appare proprio come un gioco quasi divertente. Lo si guarda svolgersi e ci si perde nell’infinità dei suoi percorsi e delle sue variabili. Smarriti cerchiamo di ordinare la storia che si accumula di nuovi dettagli divisi nella finzione che potrebbe essere (o sarò) la realtà. La conclusione arriverà ma non vorremmo finisse mai lo spettacolo. 

Lasciato lo scenario futuribile (vaneggiando un’illogica prospettiva disfattista...) di realtà sovrapponibili di “eXistenZ”, che riconduceva e quasi autocitava ironicamente l’angoscia di “Videodrome”, Cronenberg approda, per il nuovo lavoro, a Londra.

Spider nasce dalla mente del romanziere inglese Patrick Mc Grath, noto (anche in Italia) soprattutto per il successo di “Follia”, che elabora le sue narrazioni su di un sostrato psicoanalitico acquisito fin dall’infanzia trascorsa vicino al padre psichiatra. Caratteristiche, queste, ideali per un regista che ha già portato sullo schermo autori singolari come William Burroughs (“Il pasto nudo”) e James G. Ballard (“Crash”), terreno fertile di esplorazione delle ossessioni sul sesso e della carne e di ambiguità metamorfiche. Cronenberg rielabora la sceneggiatura dello stesso Mc Grath, la depura dell’ampollosità delle descrizioni e della voce off troppo esegetica e traduce le sensazioni, la schizofrenia in immagini. 

Ralph Fiennes è Spider, l’unico protagonista assieme a sé stesso e al suo  inconscio mondo dilagante. Spider, il cui vero nome è Dennis Clegg, uscito dal manicomio torna nei luoghi dell’infanzia e ripercorre gli eventi che l’hanno ridotto ad individuo afasico, maniaco, irreversibilmente traumatizzato.

Abilmente Cronenberg fonde due diversi piani temporali, il presente e il passato, confondendo lentamente lo spettatore che, concretamente, non riesce a spiegare il susseguirsi degli eventi.

Veniamo intrappolati nelle immagini, nelle suggestioni schizofreniche di Spider, nel fetore che emana il paesaggio plumbeo di un qualsiasi squallido sobborgo londinese nel dopoguerra. Tutto sembra oppresso da un senso di inquietudine che pare scaturire dalla completa asfissia che producono le strade, le case, l’enorme cisterna di gas che si erge minacciosa. Sono pochi i luoghi su cui gravita la ricerca di Spider: la sua casa, il pub, la baracca vicino all’orto. Così come sono poche le persone con cui Spider interagisce: il padre e la madre. Nasce proprio dall’attaccamento viscerale verso la madre e dal conflitto con il padre lo shock del piccolo Spider, così chiamato dalla mamma per la capacità di intrecciare ragnatele di spaghi sospese nella sua camera. La paranoia lo contamina e il cencioso Ralph Fiennes è il risultato della metamorfosi che avviene se non fisicamente, sicuramente nella sua mente.

 

Spider sussurra, osserva disper(s/at)o dentro si sè, è restio a socializzare, è quasi risucchiato dai pensieri tra i quali scava e annota graffiando affannosamente. Fa un po’ pena ma per questo non dobbiamo fidarci di lui. E’ stretto al volto della madre dalla quale gli è impossibile distaccarsi: paradossalmente vede la madre in donne diverse (Miranda Richardson interpreta tre ruoli diversi proprio come accadeva ne il Pasto nudo con Judy Davis in due ruoli diversi...). Tutto diviene nebuloso, il senso si e ci perde. Supponiamo. Ma cosa sarebbe Spider senza l’intuizione di Cronenberg, senza l’ispirazione interpretativa di Fiennes (che per prima ho fortemente voluto la parte...) senza la cura cromatica (perfetta e per questo quasi scontata nel ricreare la desolazione e il grigiore del luogo) di Peter Suschitzky? Probabilmente il solito dramma, quasi scontato in conclusione, in grado solo di aumentare il desiderio di lettura del romanzo da cui è tratto. 

Cronenberg muta e si rigenera continuamente in nuove espressioni e in nuove visioni ma non tralscia mai la sua poetica che rimane salda e unitaria. Per questo si può considerare geniale. E mai si potrà prevedere cosa, la sua mente, ci porterà.

Spider
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