Falling... In Love
Regia: Ming-tai Wang
Taiwan 2005
Spesso capita che nelle sezioni parallele dei festival si trovino opere che sono delle vere e proprie scoperte, o sorprese inaspettate legate ad autori che non si conoscono e perciò difficilmente collocabili. Nella seconda edizione delle Giornate degli Autori è passato Falling… in love del taiwanese Ming-tai Wang, regista non alle prime armi e assistente alla regia a più lungometraggi del ben più noto Tsai Ming-liang. E di quest’ultimo effettivamente si sente forte l’influenza: come suggerisce il titolo si parla d’amore, in una sorta di proseguimento ideale della tendenza a cui siamo abituati con i film di Ming-liang. Ma l’interesse per la poetica e lo stile di Wang Ming-tai sta proprio nella capacità da parte del regista e autore di prendere le distanze dal modello più vicino di riferimento ed elaborare una visione che procede per contrasti, rotture, mescolanze.
Il film si dipana a partire da una frase di Sete d’amore di Yukio Mishima: “Basterebbe non amarsi e i legami fra le persone sarebbero più semplici. Basterebbe non amarsi.”, e segue l’intrecciarsi delle storie di tre giovani, un ragazzo e due ragazze, che, in modo più o meno diretto, si troveranno indissolubilmente legati e, rispettivamente a dover fare i conti con le proprie tragiche situazioni sentimentali.
Falling… in love si presenta da subito come un’opera stilisticamente composita e articolata e di non immediata digeribilità. Narrativamente si procede ad una continua alternanza di registri, a seconda del personaggio o dei personaggi che occupano la scena, ottenuta mediante un montaggio libero che frammenta le sequenze e non predilige un rapporto di causa-effetto. In questo scorrere di passioni estreme, autolesionismo, sofferenze amorose che vivono della mancanza dell’oggetto amoroso e vagano alla ricerca di soluzioni rischiose ed esasperate, c’è la possibilità di una soluzione affettiva, racchiusa spesso in stanze devastate, e non manca la possibilità costante di un’apertura offerta dal paesaggio, dall’esterno, dalla natura, come il vento in un viaggio in moto, la neve giapponese della conclusione. Una realtà debordante, quella di Taiwan, dove sembra trasparire il disfacimento del genere maschile, che ha come rappresentanti principali uno sbandato d’amore alla deriva e un gangster yakuza; diversamente il mondo femminile nutre una speranza, la stessa che unisce le due ragazze in un’intima amicizia, che le porta a condividere i propri segreti, senza però giungere mai a svelarsi che l’amante che manca ad ognuna di loro è lo stesso uomo. Una realtà in cui nessuno sembra essere capace di amare e in cui l’amore è vissuto tutto interiormente come un groppo incomprensibile atto a straziare l’anima.
Dal punto di vista formale tutto è teso a raffigurare al meglio e con originalità le componenti amorose vissute dai protagonisti. Suggestionante è la resa fotografica ottenuta attraverso l’uso di una pellicola diapositiva con inversione di sviluppo, che produce un effetto di pastosità della grana e dei colori, con predominanza dei gialli, dei rossi e dei verdi. I contrasti cromatici producono un’avvolgente sensazione di calore che pare fuoriuscire dai corpi angosciati dei personaggi e, nel complesso, forniscono un intrigante effetto di coinvolgimento, che ha come unico limite quello di attingere a piene mani a moduli figurativi propri del genio di Wong Kar-wai (come, del resto, è capitato per Everlasting Regret di Stanley Kwan), e in particolare al periodo precedente a In the Mood for Love. Certo Wang Ming-tai riesce ad elaborare un racconto che non è semplice scopiazzatura ma, affinando la visione, è possibile scorgere evidente quanto più il film renda omaggio a Kar-wai rispetto al padre putativo Ming-liang, a come, agli effetti, sia sempre l’amore l’asse portante delle storie di questi autori. Falling… in Love è un atto d’amore a tutto tondo: verso un cinema, verso un sentimento, verso un’aspirazione profonda impossibile da governare.