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Far From Heaven

Regia: Todd Haynes

Usa 2002

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Lontano dal paradiso, è la traduzione letterale di Far From Haven di Todd Haynes (Velvet Goldmine). Ci troviamo di fronte ad un mélo che fin dal titolo racchiude in sé un’arida prospettiva e una (futura) consapevolezza della realtà. Sarà, difatti, proprio questo il percorso interiore della protagonista: un percorso di cognizione della propria vita e del disfacimento dei valori che credeva indissolubili.

Far From Heaven non è affatto però un melodramma moderno, e lo si percepisce fin dal primo istante. Con lo scorrere dei titoli di testa, veniamo catapultati nei gloriosi anni cinquanta (è il 1957), in una splendida cittadina del New England (Hartford, Connecticut) dove vive l’altrettanto splendida e apprezzata famiglia dei coniugi Frank e Cathy Whitaker, l’uno direttore di una filiale di una società di televisori, l’altra casalinga premurosa e protettiva verso i due figli, moglie stimata ed invidiata dalle amiche (verrà addirittura intervistata da un giornale locale come esempio di perfezione muliebre). Sotto l’apparente, costante strato di serenità (delineato dal trionfo dei colori dei fiori e delle foglie, che sembrano scandire il tempo, dell’arredamento, ricercatissimo, dei vestiti, meravigliosi nella loro anti-modernità: gonne a ruota, corpetti strizzati, foulard di chiffon) in cui sembra vivere sia la famiglia Whitaker che tutta la cittadina, scalpita la sensazione amara dell’insoddisfazione, dell’ipocrisia, del razzismo. 

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Quello di Haynes è un evidente atto d’amore verso un’epoca e la rappresentazione dello stile e delle contraddizioni da cui quell'epoca (quella indimenticabile della Hollywood degli anni cinquanta) è stata caratterizzata.  Un omaggio ai registi che hanno fatto la storia di quel periodo, John Stahl e soprattutto Douglas Sirk, da cui viene parafrasato anche il titolo del suo All That Heaven Allows (1955, in italiano Secondo amore) di cui Far From Heaven sembra quasi essere il rifacimento. Un rifacimento originale e non assolutamente impersonale da parte del regista, ottenuto grazie alla cura dei dettagli e alla maestria, in primis, della protagonista, Julianne Moore. La forza del dramma poggia tutto su di lei, capace di donare sempre sorrisi e gentilezze, anche quando è preda della sofferenza familiari (la crisi col marito, che si presenta dapprima come insoddisfazione sessuale e poi come manifesta omosessualità), malinconica come la Jane Wyman di Secondo amore, forte nel far valere il proprio punto di vista quando, non badando alle voci maligne, porta avanti il suo rapporto di solidale amicizia con Raymond, il giardiniere di colore. 

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"Lontano dal paradiso" ciò che resta (e che trionfa) alla fine è la coerenza, è la passione. Quella di Cathy nella finzione del racconto, ma anche, nella concretezza della realizzazione, quella di tutti coloro che hanno partecipato a portare sullo schermo questo splendido mélo d’altri tempi: dal compositore Elmer Bernstein al direttore della fotografia Ed Lachman (premiato proprio a Venezia per questo suo contributo), alla costumista Sandy Powell (già oscar per Shakespeare in Love), a Dennis Quaid, in un ruolo inusuale ma azzeccato nell’interpretare un Frank in balìa degli eventi e di sé stesso, ad Haynes  film successivo in archivio, regista e anche sceneggiatore, che sa imbrigliare con raffinata eleganza la materia narrativa ed esaltare con il preziosismo della citazione la retorica del melò.

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