Far East Film Festival di Udine 11
Ancora una volta, a Udine, al Far East Film Festival per avere uno scorcio di Oriente, inarrivabile, autentico, esagerato, e per forza di cose, estremo. Un festival obbligatorio, di questi tempi in cui l’impressione del raggiungimento della fine, del traballamento di qualunque forma di espressione vitale si connota drammaticamente di una variante cromatica plumbea e di un sentimento d’incertezza, giacché il cinema - in quanto sunto artefatto di quell’inganno a cui i nostri sensi sono drasticamente assoggettati - costringe all’osservazione oltremodo dettagliata, e in ogni caso speculare a una riflessione non uniformata alla patina indistinta del brodo delle opinioni.
Ancor di più è essenziale un festival che si fa carico di trattare ed esporre un cinema di una sola determinata area geografica, ma completo di ogni genere o sottogenere rintracciabile in questo contesto, in risposta della prassi ampiamente diffusa (e pur valida) dei festival internazionali in cui le diverse cinematografie nazionali vengono affrontate quasi esclusivamente per i modelli autoriali più decifrabili o riconosciuti. E’ così che il Far East è e resta il luogo in cui discutere con un nitido criterio di un cinema che è oramai diventato parte (r)esistente e imprescindibile della conoscenza cinematografica universale e in parte - in una sorta di automatismo critico categorico e persecutorio - già oggetto (s)perduto in qualche fatale ricordo e prodotto miseramente inabile a fare i conti con il presente gravoso e vacillante.
Osservando con rigorosa passione la maturata consapevolezza che da quelle parti il cinema, e dunque i cineasti, i produttori, gli sceneggiatori e via discorrendo, non siano rimasti a contemplare compiaciuti il passato fulgente, si può constatare come si stia attuando e raggiungendo un progressivo cambiamento e mescolamento dei caratteri, e delle scelte, e delle forme divenute peculiari e rappresentative, addirittura stereotipo, di un intero modo di fare cinema.
E’ proprio grazie a festival come il Far East Film che si possono travalicare gli stretti limiti della produzione assodata e criticamente accettata e divertirsi a immaginare di migrare per qualche momento in ambienti, luoghi, realtà immanentemente differenti e riuscire a scoprire e conoscere qualcosa che altrimenti resterebbe solamente un prodotto confinante e relegato. In questa maniera, l’undicesima edizione del Far East ha offerto la possibilità di esaminare quali nuovi stimoli fremono a Oriente e quali nuovi volti sono pronti ad affacciarsi sul panorama internazionale, dimostrando un segno di vitalità e una capacità di reinventarsi - mantenendo pur sempre un proprio tratto distintivo non indifferente - verso cui ci si dovrebbe soffermare a ragionare; anche in rapporto alle polverose abitudini di visione europee.
Mantenendo quest’ottica quindi si può comprendere con meno stupore il successo agli Oscar (miglior film straniero) di Departures di Takita Yojiro, fatto assolutamente raro visto che dal 1947 (anno in cui gli Oscar hanno inaugurato questa categoria) è capitato solo tre volte (come premio onorario negli anni ‘50) che vincesse un film giapponese.
Departures denota appunto quel moto di ridefinizione in atto nel cinema nipponico, e un’apertura degli stilemi di genere classici, elementi questi che con tutta probabilità hanno permesso, e consentiranno, una più accessibile fruizione anche da parte di chi non ha la curiosità e la conoscenza per accogliere e decodificare criticamente la cultura immaginifica di questo paese o di chi, più passivamente, si aspetta solo di vedere e in qualche misura immedesimarsi con il film.
Tutto ciò nonostante la vicenda sia incentrata sul ruolo del nokanshi (letteralmente, il maestro di deposizione nella bara), una figura professionale sconosciuta in Occidente, che attraverso un meticoloso rituale prepara le salme dei defunti per l’ultimo saluto. Departures rende la morte e il dolore della perdita una materia antieroica, portatrice di una dignità e di un rispetto lontani da tabù e formalismi sociali; accettabile. E ci riesce scardinando l’immobilismo e l’annichilimento mortifero a cui sembra essere destinato il protagonista, un violoncellista che in seguito alla perdita del lavoro nell’orchestra, decide di trasferirsi nella natia Yamagata, a nord del Giappone, in cerca di un’occupazione, un obiettivo, una motivazione distante dal recente passato. “Il protagonista è un uomo che non aveva mai dovuto prendere decisioni riguardo la propria vita. Sin dalla sua infanzia, altri avevano deciso per lui. Questa è la storia della sua crescita come essere umano e della sua personale scoperta dei propri valori”.
L’abilità di Takita Yojiro sta tutta nell’affrontare la morte con la delicatezza, l’amore, l’innocenza di uno sguardo puro lontano da convenzioni e pregiudizi, rendendola contraddittoriamente vivifica, perché se da un lato vediamo la sofferenza del lutto, dall’altro diviene progressivamente tangibile il rinnovamento del personaggio principale: “come nokanshi, egli si accorge che, aiutando gli altri ad accettare la loro perdita, gli risulta più facile fare i conti con la propria”.
Departures ha la capacità di reggersi su uno equilibrio formale e narrativo che permette di tracciare, (r)incorrere, osservare, definire, profili e prospettive dei personaggi che sono a contatto con il protagonista contribuendo all’identificazione e alla costruzione di uno sguardo scomposto anamorficamente in diverse varianti del desiderio. Ne sono un esempio la moglie tanto docile quanto indisposta ad accettare una vita assieme a un compagno impuro (perché questo è il giudizio sociale e culturale verso chi viene a contatto con i morti) e il vecchio maestro nokanshi, un professionista che gode appieno dei piaceri della vita, dal cibo sulla sua tavola alle piante di cui si circonda.
Nel delicato mantenimento del gioco delle pulsioni, il regista, attraverso la meticolosa preparazione dei corpi senza vita, come in una composizione artistica sublime e fissata nel tempo, produce uno strappo improvviso e inaspettato, nel quale si insinua la percezione di essere sbirciati nell’imperturbabilità della nostra più inconscia e impronunciabile paura.
Se da una parte il cinema Giapponese risulta significativamente il più vitale sotto il punto di vista della curiosità e dell’interesse stimolati dalle nuove produzioni e dai nuovi autori, non si può fare a meno di considerare le difformità e le alterazioni, la capacità rigenerativa, all’interno del complesso geografico del cinema dell’Estremo Oriente.
Sì è imposto alle visioni il sudcoreano My dear enemy di Lee Yoon-ki, tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Taira Azuko, storia di una donna che incontra il suo ex fidanzato e gli sta alle calcagna per farsi restituire un vecchio prestito. L’incontro tra i due, racchiuso nell’arco temporale di una sola qualunque giornata, prospetta quindi la ricerca del denaro come occasione per esaminare due personalità, due emisferi disgiunti e contrapposti, incapaci di definire il proprio passato, e costretti a una convivenza forzata che sembrerebbe descrivere il lieve e malinconico addio al passato.
Lee Yoon-ki volge lo sguardo ai ricordi, come forma irrinunciabile e irrimediabile al susseguirsi del tempo, ne riempie inestricabilmente il tessuto narrativo, facendone i promotori nodali dei (ri)sentimenti che accompagnano la vita degli amanti. Il tempo stesso sembra fuggire alla possibilità di non essere un mero un susseguirsi di ricordi o illusioni, di intermittenze eventuali a cui ci si abbandona senza troppe pretese né convinzioni o aspettative.
Le circostanze per la riscossione dei soldi offrono la possibilità per l’emersione e la ridefinizione del passato, di ciò che è avvenuto ma non è stato compreso, ed è così che i caratteri dei due personaggi si plasmano secondo un nuovo punto di vista, dalla valenza personale e taciuta, svelata solamente da modulazioni vocali o gesti sottratti al controllo delle apparenze. Ogni ragazza a cui viene chiesto l’aiuto economico da parte dell’uomo si dimostra felice di ricambiare la disponibilità e la generosità ricevute dallo stesso in precedenza, ma la determinazione dell’ex fidanzata non assicura mai un’occasione per un rimedio, lasciando avvertire la presenza inquieta di un’insopprimibile memoria.
Alla fine, raggiunto (forse) lo scopo, rimane a noi la consapevolezza che non sia avvenuta alcuna conclusione: le due vite si disperdono nella notte, come se nulla fosse effettivamente accaduto, nulla fosse cambiato, nulla fosse importante, lasciate a un destino, a una realtà, che rimarrà per sempre inaccessibile.
A dispetto dell’imperturbabilità dei sentimenti trattenuti dei protagonisti, My dear enemy rimane fedele ai toni della commedia, una commedia leggera e rilassata, formalmente semplice (perché “la semplicità - come dice il protagonista - è positiva”, e non è sinonimo di semplificazione), che, anche grazie all’ambientazione urbana raffinata di bar, ristoranti, uffici e abitazioni dagli arredamenti minimali e ricercati e al tocco sofisticato del jazz della colonna sonora di Kim Jung-bum, richiama certi sapori e sentimenti newyorkesi cari a Woody Allen. Imprescindibile l’attrice protagonista, Jeon Do-yeon, vincitrice a Cannes nel 2007 per l’interpretazione in Secret Sunshine di Lee Chang-dong (Oasis, 2002).
Dalla Cina e da Hong Kong arrivano invece All about Women di Tsui Hark e Connected di Benny Chan.
Il primo è la nuova voluttà creativa, ennesimo cambiamento di genere, provocazione stilistica di un autore già entrato nella storia del cinema di Hong Kong, ora in trasferta nella più vantaggiosa e proficua Pechino: “è sempre affascinante vedere un grande regista come Tsui in un’evoluzione che, dalle prime commedie di rottura delle convenzioni di genere, a Hong Kong negli anni Ottanta, passando attraverso una reinvenzione di thriller e film di fantasmi di fine anni Ottanta e inizio Novanta, arriva fino all’attuale ridefinizione della sua energia e della sua visione in un confronto intenso, demenziale e maniacale con la cultura pop cinese dell’inizio del XXI secolo”.
Lo spirito anticonformista e il desiderio di rottura in effetti non viene a mancare nemmeno in All about Women, partendo già dal titolo, che, senza troppe interpretazioni, pone l’accento su quella che è, di fatto, la struttura del film, costruita su tre personaggi femminili frutto dei cambiamenti della Cina contemporanea, post-olimpica, globalizzata e, in certa misura, di tendenza. E già questo costituisce di per sé il cardine dello slittamento dell’epicentro di un interesse, dell’attenzione, della curiosità, sia da parte della figura di un regista da sempre legato alla costruzione di fantasie cupe, virili, d’azione più che di sentimenti, sia da parte degli spettatori che, indirettamente, richiedono, desiderano, e più apertamente, scelgono e apprezzano (e i dati al box office lo confermano) storie sentimentali nelle quali ci si può identificare abbastanza agevolmente.
Ciò non significa tuttavia che vi si ritrovi un carattere omogeneizzante all’interno di tutti i film di genere sentimentale: ne è un esempio un altro titolo presente al Far East, If you are the one di Feng Xiaogang, una commedia romantica, satira sul tema della solitudine e delle contraddizioni tra amore e matrimonio, e uno dei più grandi successi della scorsa stagione cinematografica cinese, con al centro ancora una volta i legami e le passioni delle donne. Dunque un’incursione nell’animo femminile, come se stesse svelandosi un’attitudine sommersa, piena di questioni opponibili, in transizione verso la consapevolezza delle proprie possibilità e dal fascino estetico ideale, che, nelle mani della fervida autorialità di Tsui Hark diventa un calembour visivo debordante, dove il complesso della forma cinematografica viene estremizzato nella ricerca di invenzione, ritmo, colore e geometrie variabili.
Le tre protagoniste di All about Women sono una ricercatrice medica che fa esperimenti sui feromoni, una musicista heavy metal e scrittrice di romanzi su internet e una manager di una società di investimenti tecnologici: “donne potenti, brillanti, esilaranti, di sublime bellezza” impegnate in rapporti con “uomini sfortunati che non possono fare altro che starsene a guardare, ipnotizzati, sconfitti ed esaltati nella più sleale delle competizioni”. Al di là di ogni osservazione esegetica o giudizio apodittico l’ultimo esperimento di Tsui rimane un innegabile diletto per la visione, capace di evocare e suggerire e non far dimenticare le infinite derive immaginative del cinema.
La stessa scelta di spostarsi a lavorare in Cina è avvenuta anche per altri popolari cineasti di Hong Kong quali Chen Kaige, John Woo, Stephen Chow, segno cristallino della precaria condizione dell’industria del cinema dell’ex colonia britannica, che vede come unica possibilità di sopravvivenza proprio la co-produzione con la censoria Cina. Ma il segno della crisi non sembra dimorare solo nel portafoglio, ed è possibile che la cornucopia delle idee stia esaurendo - per una serie di circostante che andrebbero vagliate con attenzione - la portata di quelle idee capaci di elevarsi a genere.
Tale condizione può essere emblematicamente rappresentata, e per certi versi confutata, da Connected, un rifacimento - appunto - di un film di serie b hollywoodiano, Cellular (di David R. Ellis, 2004), da cui prende la storia di un malcapitato signor qualunque costretto a fare l’eroe per salvare la vita di una donna misteriosamente rapita.
Benny Chan sfrutta il plot originale e gli instilla adrenalina, umorismo, azione, colpi di scena, complicazioni, senza freni né pause, trasformando l’intero svolgimento in un’unica apnea tensiva, verso la quale non è per niente automatico essere avvezzi e in cui egli dimostra tutta l’abilità, radicale e differenziante, di questo cinema nel manovrare l’azione. I dialoghi appaiono ridursi a fili conduttori tra le sequenze o spunti per le parentesi di comicità tipicamente cantonese, laddove il vero soggetto che sgorga prepotentemente è il vigore dell’azione, il vortice di immagini in grado di produrre una visuale onnicomprensiva, iperrealistica, dal coinvolgimento straniante, ludico, e in certa parte quindi, onirico.
Un cinema dichiaratamente di intrattenimento, ovviamente, in cui non manca di manifestarsi l’embrione di un possibile ulteriore sviluppo.
E’ donna anche l’evoluzione del cinema di combattimento thailandese (Muay Thai), con l’autentica rivelazione dell’eroina di Chocolate, Jeejia Yanin, compositrice di evoluzioni col corpo senza l’ausilio di cavi o computer graphics. “Chocolate non è soltanto una vetrina per le stupefacenti capacità di Jeejia nelle arti marziali e negli stunt (nella vita reale è un’esperta di taekwondo), ma anche una rete di riferimenti che indicano la direzione dei film d’azione thailandesi.
Con il gioco di parole dei cioccolatini (la protagonista mangia gli Smarties per diventare smart, intelligente), la risposta ai film di Tarantino (dall’animazione di Kill Bill al combattimento tra samurai nella resa dei conti, oltre al brillante pugile epilettico che ricorda lo schiavo in abbigliamento sadomaso di Pulp Fiction) e il tributo a Bruce Lee nella scena nella scena della fabbrica di ghiaccio ispirata a Il furore della Cina colpisce ancora, Chocolate esibisce una sicurezza che riassume un insieme di fonti in qualcosa di totalmente nuovo”.
Un film che compone la prossemica dello scontro corpo a corpo in uno spettacolo duro e puro, senza bisogno di riflessioni o artifici, dall’etica spiccia e necessaria, e dal fascino recondito e primordiale.