Far East Film Festival di Udine 13
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Introduzione
“Non si può realizzare una manifestazione dedicata all’estremo Oriente nascondendo il pensiero dell’immane tragedia che ha colpito il Giappone. Dall’11 marzo scorso, non siamo più giapponesi o italiani, cinesi o francesi, coreani o americani. Siamo uomini. Il 6 maggio del 1976 un terremoto distrusse il Friuli, lo stesso anno un terremoto ancor più terribile colpì la Cina (il terremoto di Tangshan). Il 6 maggio 2011 proietteremo Aftershock di Feng Xiaogang, la storia di quel terremoto. La vita continua... anche per ricordare”.
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Deve iniziare doverosamente con queste parole degli organizzatori qualunque racconto della tredicesima edizione del Far East Film Festival. Un’edizione dedicata al popolo giapponese, all’insegna del ricordo e della speranza di ripartire: il logo FEFF FOR JAPAN, disegnato dal grande illustratore italiano Guido Scarabattolo, e presente sulle borse del Festival, ha caratterizzato l’intero evento e designato una raccolta fondi devoluta poi alla CIVIC FORCE giapponese, impegnata con aiuti concreti alle popolazioni del nord. A decretare il successo dell’iniziativa e la solidarietà e la partecipazione del pubblico, sempre più numeroso, anche l’Audience Award (il premio attribuito per votazione dagli spettatori) a Aftershock del cinese Feng Xiaogang, commovente, tonitruante e commemorativo dramma familiare sviluppato temporalmente all’interno di due eventi agghiaccianti per la storia della Cina: il terremoto di Tangshan del luglio 1976, che causò oltre 270 mila morti, e il recentissimo terremoto del Sichuan, del 12 maggio 2008. Un premio che - al di là di giudizi sul valore cinematografico del costosissimo film di Xiaogang, che punta tutto su una spettacolarizzazione intensa del dramma dell’annientamento immane causato dal sisma e non nasconde un chiaro intento propagandistico - ribadisce chiaramente la vicinanza del popolo del Far Est alle vittime giapponesi e suggella un festival ricco e complesso per varietà di sguardi e, in definitiva, indispensabile veicolo e accesso ad una cinematografia, e più in generale, ad un cultura panasiatica, da scoprire e riscoprire.
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Una tredicesima edizione che ha cercato scaramanticamente di allontanare le nubi nere della crisi (è alto il rischio di non vedere assicurati al Far East Film un futuro e una nuova programmazione a causa di mancati finanziamenti pubblici) e ha saputo rinnovarsi e crescere, puntando su una formula collaudata che non vuole però essere una stanca riproposizione del passato, bensì una continua ricerca diacronia del nuovo. Una maturazione che ha prodotto un arricchimento del programma (50 titoli in concorso provenienti da Cina, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Filippine, Thailandia, Indonesia, Taiwan, Vietnam, Singapore, Mongolia Malesia) e due importanti e dense retrospettive, l’una dedicata al cinema comico asiatico Asia Laughs! A survey of Asian Comedy, e l’altra a un genere così fortemente connotante qual è il pink, con un omaggio alle produzioni di Asakura Daisuke.
Da sempre fedele alla propria missione di studio, di scoperta e di ricerca, il festival di Udine rappresenta una preziosa opportunità e una risorsa indispensabile per aprire gli occhi su un cinema da sempre troppo lontano e misterioso, ma dal valore oramai riconosciuto anche dai festival più importanti e acclamati (Cannes, Venezia, Berlino, Locarno...), che vedono ospitare da tempo nelle selezioni principali molti autori passati da qui e tuttora grati all’apporto fondamentale del Far East per la diffusione in Europa dei loro film.
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Concorso
La consueta vetrina dedicata al meglio del cinema popolare dell’estremo oriente ha offerto, come vuole la tradizione, un excursus completo tra i generi e i cineasti portatori di quell’identità di rappresentazione, e a volte anche di visione, che permette di comprendere meglio la tendenza e lo sviluppo, e forse il futuro, del cinema in una delle regioni del globo più soggette a un perenne e forsennato cambiamento.
La grande potenza cinese, a differenza di quanto accadeva nei primi anni del Festival, riesce ad imporsi in maniera sempre più evidente, da una parte con produzioni spettacolari e ad alto budget: Aftershock di Feng Xiaogang, The Lost Bladesman, wuxiapian di Alan Mak e Felix Chong, la brillante commedia Welcome to Shama Town di Li Weiran, What Women Want di Chen Daming (remake dell’omonimo film hollywoodiano di Nancy Meyers interpretato da Mel Gibson e Helen Hunt e nella versione cinese da Andy Lau e Gong Li,) Wind Blast di Gao Qunshu (originale commistione di action, poliziesco, western, comico demenziale e dramma); dall’altra con il sostegno a vecchi e nuovi autori: Buddha Mountain di Li Yu (autore di Dam Street, 2005 e Lost in Beijing, 2007) propone il viaggio verso una meta inconsueta come metafora per ristabilire un legame con il presente attraverso la memoria; The Piano in a Factory di Zhang Meng, opera prima ambientata nel Nord-est della Cina della metà degli anni Ottanta, quando i cambiamenti che nell’arco di più di vent’anni hanno portato alla trasformazione radicale della società e del Paese stavano allora prendendo forma e si stavano facendo strada nella vita della popolazione; e Under the Hawthorn Tree che segna il periodico ritorno di Zhang Yimou ad un cinema semplice - ma non semplicistico - dopo i fasti dei suoi ultimi film di cappa e spada. Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice Ai Mi (2007), ispirato alla vita reale di una giovane cinese che dopo la Rivoluzione Culturale condivise con la scrittrice i propri ricordi.
Da Hong Kong una delle sorprese più interessanti del Festival: The Drunkard, opera prima del critico cinematografico Freddie Wong, tratta dal romanzo omonimo di Liu Yichang (autore noto per avere ispirato con le sue opere il Wong Kar-Wai di In the Mood for Love e 2046), è sicuramente il titolo più anomalo all’interno di una proposta come sempre caratterizzata per action, poliziesco, e commedia romantica. A tal proposito è apparso quasi privo di identità il ritorno alla commedia di Johnnie To che con Don’t go breaking my heart mette in scena un triangolo amoroso lussuoso ed elegante sullo sfondo della crisi finanziaria. E risultato analogo per Punished, prodotto sempre dalla Milkyway Image di To ma diretto da Law Wing-cheong, che ripropone senza grandi ispirazioni la storia di vendetta di un padre (Anthony Wong) a cui è stata uccisa la figlia. Non delude invece Dante Lam con il nuovo superaction The Stool Pigeon, incentrato sulla figura dell’informatore della polizia: sembra un film giallo sulla dinamica poliziotto-informatore, con Lam che mostra i compromessi cui si deve sottostare quando si usano dei cattivi per catturare altri cattivi.
Corposa e diversificata la scelta di film dalla Corea del Sud. Senza troppi slanci autoriali sul versante dei drammi, degli action polizieschi e degli horror, i quali risultano sempre impeccabili sia dal punto di vista tecnico e produttivo sia nell’articolazione di complesse strutture narrative ai limiti della comprensione (e a volte anche della sopportazione) ma senza la realtà volontà di scollarsi da spettacolarizzazioni ultraviolente come garanzia di riferimento ad un modello di successo o un marchio di fabbrica: in tal senso vanno The Unjust di Ryoo Seung-wan, Troubleshooter di Kwon Hyeok-jae, The Showdown di Park Hoon-jung, il campione di incassi coreano The Man from Nowhere di Lee Jeong-beom e Bedevilled dell’ex aiuto regista di Kim Ki-duk, Jang Cheol-soo.
Discorso a parte per il cortometraggio sperimentale girato da Park Chan-wook assieme al fratello minore Park Chan-kyong: i trentatré minuti di Night Fishing nascono da un meccanismo di ripresa insolito, l’iPhone, e costituiscono più che altro l’incipit per una riflessione su una possibile componente evolutiva del cinema in riferimento alla video arte. Un uomo pesca il corpo di una giovane donna che inizia a parlargli della figlia che lui ha perso molto tempo prima. Una storia semplicissima che permette ai due registi di concentrare tutta l’attenzione sugli effetti emotivi prodotti dal dialogo ultraterreno instaurato dal rituale sciamanico a cui conduce presto la vicenda. Nonostante non manchi di mostrarsi il tocco esperto e caratteristico della mano di Park Chan-wook, nel complesso il timbro horrorifico sembra a suo modo fisiologico e lo sguardo pacato e incredulo del protagonista (l’attore feticcio Oh Gwang-rok) funge da viatico ad una visione mistica, solenne e inquieta, in cui simboli e linguaggio si fondono in un orizzonte eterno e già passato qual è, in definitiva, il cinema.
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Colpisce nel segno invece, nuovamente, il solido e proficuo vigore della commedia romantica, genere dalla fervida vitalità e dalla commovente efficacia, declinazione di uno dei migliori esiti della produzione coreana degli ultimi anni.
My dear desperado di Kim Kwang-sik ne è un felice esempio: una piccola produzione per un regista esordiente con alle spalle anni di gavetta come assistente (tra gli altri anche per Oasis di Lee Chang-dong), due attori decisamente ispirati, la Seoul dei nostri giorni, una storia d’amore improbabile. Elementi semplici e uno stile abbordabile e poco ricercato ma proprio per questo estremamente utile a definire l’intero gioco della conquista dei sentimenti in una dimensione afferrabile, quotidiana, realistica, e dunque protesa ad una identificazione affettiva. La forza di questa commedia è proprio nella minuziosa calibrazione di forze e aspettative universali che qui si svicolano da una retorica consumata e prevedibile per riassumersi nella concisione di un gesto, di un’espressione contraddetta, di una parola imprevista. Se-jin è una ragazza di provincia che si è appena laureata e si trasferisce a Seoul per lavorare in una grande azienda. Dedica tutte le sue energie per emergere all’interno del gruppo di lavoro, ma ogni sua speranza svanisce quando la società fallisce. Sconvolta, deve lasciare il suo bell’appartamento per trasferirsi in un economico monolocale seminterrato finché non sarà in grado di trovare un altro lavoro. Ma non è così facile e in più, con il trasloco, deve affrontare un altro problema: il vicino della porta accanto è un gangster di mezza età.
Attraverso le commedie come My dear desperado si vedere in atto il nobile valore di un genere e l’immensa versatilità dei suoi meccanismi costituenti. Il regista non rinuncia alla leggerezza, alle battute e a numerose situazioni divertenti, ma le snoda in un contesto in disgregamento, di recessione, di annullamento della personalità fortemente realistico, riuscendo così a parlare del vissuto contemporaneo al di là di stereotipi rappresentativi consolidati, e conferendo un valore fondativo alla casualità dei rapporti interpersonali. Il romanticismo o la conquista del sentimento d’amore non sono in questa commedia un solito oggetto futile o pretestuoso per il susseguirsi di una serie di accadimenti, ma uno scambio, un mettersi in gioco, un rischio in favore di una riacquisizione di una libertà decaduta, che più in generale costituisce l’unica speranza di salvezza per l’essere umano. Dunque la riprova che l’altra fruibilità non determina un necessario abbassamento della qualità. Una lezione troppo spesso trascurata che rimanda ai grandi nomi indimenticabili della commedia americana.
Il Giapppone si è rivelato una vera certezza per la qualità e l’originalità dei film in programma.
Trainato dalle bellissima retrospettiva dedicata alla produzione di Asakura Daisuke - storico marchio di fabbrica della società Kokuei per i film più innovativi e sperimentali, e pseudonimo dietro al quale si cela dal 1991 la figura di Satô Keiko, unica titolare dell’eredità e del futuro di questo nome - è stata presentata l’ultima eccezionale creazione della signora del pink, un musical erotico, malinconico eppure divertentissimo, e probabilmente la più bella sorpresa del Far East Film 2011.
Underwater Love è un’originale avventura amorosa che ha come protagonisti Asuka e Tetsuya. Asuka ha circa trentacinque anni, lavora per un’industria ittica in un paesino sulla costa e ha appena accettato la proposta di matrimonio di un suo collega. Tetsuya è un ex compagno di scuola di Asuka, morto annegato in una palude durante l’ultimo anno di liceo, prima di riuscire a confessare alla ragazza il suo amore. Tetsuya però è rinato sotto forma di kappa, lo spirito dell’acqua (creatura del folklore e della mitologia giapponese dall’aspetto metà rana, metà tartaruga), ed è tornato per salvare Asuka. Il Dio della Morte, che appare come un hippy eccentrico in abiti sgargianti, dice a Tetsuya che Asuka morirà il giorno seguente, prima del tramonto. Per riuscire a salvarla Tetsuya conduce la sua amata tra le montagne, per farsi dare da un anziano kappa una shirikodama, la mitologica sfera anale che impedirà il tragico destino voluto dal Dio.
Diretto dal veterano del genere pink Imaoka Shinji, Underwater Love costituisce già un simbolo della prolifica capacità e originalità reinventiva e sperimentativa di un cinema che vive orgogliosamente ai margini di un sistema figurativo troppo alacremente prevedibile. Un cinema che osa, ora, anche guardare oltre i confini nazionali continuando a nutrirsi di un'istintualità e una duplicità della visione in grado di scoordinare e impressionare l’apparato percettivo dello spettatore. Non è dunque affatto casuale l’amalgama eclettico dei collaboratori messi insieme per questo film: l’elaborata e suadente fotografia è frutto del talento di Christopher Doyle (preziosissimo collaboratore di Wong Kar-wai, Gus Van Sant, Zhang Yimou, Stanley Kwan), attento da sempre alla ricerca autoriale più ardita e magnificamente ossessionato dalla significazione di forme e colori dall’armonia incantevole e perfetta; la colonna sonora, dolce e malinconica e a tratti naif, proviene invece dall’immaginario synthpop del duo franco-tedesco degli Stereo Total.
Underwater Love apre il suo genere di riferimento (il pink) ad una forma più complessa ed elaborata, una dialettica che riunisce gli stilemi di generi (muscial, avventuara, fantasy, dramma) in una sorta di inno alla creatività, alla gioia, alla bellezza di vivere nella diversità e con tutte le idiosincrasie del mondo e del corpo. Un cinema questo capace, ancora, di respirare l’illusione leggiadra di un desiderio puro: la maschera surreale del kappa è il veicolo che permettere l’emersione della verità del sogno, intriso di elementi insieme ironici, grotteschi, erotici, romantici e sublimi. Un verità contraddittoria, dolorosa, pulsionale e, in definitiva, estremamente vitale, a prima vista inconsistente di senso, ma dotata di una forza amplificatrice dell’orizzonte della visione. Nell’indagare quest’esercizio sopito a vedere e dunque, immaginare e scoprire, si sviluppa la rinnovata e proficua tendenza narrativa della produzione - più e meno popolare - Nipponica odierna.