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Far East Film Festival di Udine 18

Il divertimento non è più assicurato: la festa sembra aver imboccato quel percorso che conduce diretto all’alba, dove la sensazione di stanchezza offusca la vista e quella luce che trafigge le palpebre è attorniata da un’opalescenza narcotica che dirada la concentrazione e favorisce una uniformità emotiva di cui ci si scorderà al risveglio. “In un’ingenua comparazione tra la vita umana e la vita di un evento, compiere 18 anni dovrebbe rappresentare l’approdo effettivo alla maggiore età anche per un festival”, ma cosa davvero può rappresentare questo traguardo, questa cifra simbolica, questa banale e apparente assunzione di (nuove?) responsabilità è una questione più articolata, della quale - a posteriori - è il cinema stesso (come sempre) a fornire alcune delle possibili risposte e interpretazioni.  Infatti, se l’esistenza del progetto festivaliero udinese rimane e si conferma vivo e soprattutto indispensabile per uno sviluppo e dialogo culturale a livello nazionale, e ormai definitivamente sempre più anche internazionale, sul piano della qualità, o meglio, dell’urgenza, del prodotto cinematografico proveniente dal macroscopico contenitore geografico dell’Estremo Oriente si affaccia l’evidenza che quell’onda di rinnovamento, fervore e floridezza che hanno originato l’evento nel 1999 fanno parte di una stagione conclusa, i cui segni restano evidenti in un presente che ha subìto una svolta epocale in ambito commerciale e produttivo. La Cina, negli ultimi 18 anni, è diventata il secondo mercato cinematografico mondiale (6,8 miliardi di dollari) al posto del Giappone, sceso al terzo gradino del podio (2 miliardi di dollari), e la crescita della Corea del Sud (al settimo posto con 1,7 miliardi di dollari).

Di fronte alle cifre si può dunque capire l’importanza commerciale di un territorio ma di conseguenza anche una forte spinta all’uniformazione dei gusti e delle caratteristiche formali sempre più tese verso la facile presa sul grande pubblico. Prova ne è anche il verdetto del pubblico di Udine che per il secondo anno consecutivo vede ai primi due posti film coreani di grande impatto spettacolare: il dramma bellico A Melody To Remember di Lee Han è il vincitore del Gelso d’Oro 2016 mentre il secondo posto se l’è aggiudicato la dolcissima favola spaziale Sori: Voice From the Heart di Lee Ho-jae. 

Il primo, tratto da una storia vera, è per molti versi un film ispiratore e commovente che parla di amore, sacrificio e altruismo. Ma è anche una storia ambientata nel contesto di una guerra terribile e insensata. È l’anno 1952, a due anni dall’inizio della Guerra di Corea. Nel bel mezzo del conflitto, il tenente Han Sang-ryul patisce un’altra tragica perdita e si ritrova completamente solo al mondo, senza famiglia. Ritornato a Busan dal fronte, egli lotta per trattenere il proprio dolore. Poi, un giorno, gli viene chiesto di dare una mano in una casa di accoglienza per bambini rifugiati che sono rimasti orfani di recente. Nella sua vita prima della guerra, Sang-ryul aveva studiato musica e quando suona il pianoforte la musica sembra fluire da un altro mondo. Anche se non è nello stato d’animo giusto per esibirsi lui stesso, alla fine decide di organizzare un coro di bambini assieme alla responsabile della casa di accoglienza. 

Sori: Voice from the Heart prova invece a cercare uno sprazzo di originalità narrativa, cercando di affrancarsi dalle più che giustificate critiche mosse negli ultimi anni alle case di produzione sudcoreane, accusate di rimaneggiare sempre le stesse idee e linee narrative ormai trite. Fatto salvo un ancoraggio alla realtà con il ricordo del tragico incendio nella metropolitana di Daegu del 2003, il film è di fatto improntato tutto su forti emozioni come ci ha abituato il cinema coreano ormai da tempo. In questo caso la novità è costituita dall’elemento fantascientifico, S19 (successivamente rinominato ‘Sori’), un satellite spia di fabbricazione statunitense che, nelle scene di apertura del film, è in orbita sopra la Terra. Anche se ufficialmente si tratta di un banale satellite per le telecomunicazioni, in realtà è tutt’altra cosa. Munito di intelligenza artificiale all’avanguardia e di una tecnologia di riconoscimento vocale, Sori ha il segreto compito di registrare tutte le conversazioni telefoniche terrestri. Ma alla fine, il satellite consapevole capisce che le conversazioni registrate vengono utilizzate per orchestrare attacchi da parte di droni in cui civili innocenti verranno feriti e uccisi. Tormentato, Sori decide di disertare. Sori incontra Hae-gwan su una spiaggia deserta lungo la costa coreana. Sori ha bisogno dell’aiuto di Hae-gwan per muoversi sulla superficie terrestre, soprattutto perché vuole andare in Medio Oriente ad aiutare le vittime degli attacchi con droni. Hae-gwan, dal canto suo, si rende conto che la tecnologia di Sori potrebbe aiutarlo a trovare sua figlia. 

 

La gloria del passato è al centro di una rielaborazione, attraverso il ricordo che non vuole essere pedissequa imitazione ma punto di partenza per evitare una definitiva perdita di identità, soprattuto per il cinema di Hong Kong. Ne sono fortunati esempi il ritorno dietro la macchina da presa dopo vent’anni di un nome leggendario per le arti marziali, Sammo Hung, con il film The BodyguardThe Mobfathers, primo capitolo su una nuova saga sulle triadi firmata da Herman Yau. 

Se il popolare maestro di kung-fu sfrutta la senescenza e i limiti del corpo con un’ironia solo apparentemente semplicistica per rievocare una stagione in via di deperimento e i dubbi per un futuro sociale e cinematografico altrettanto infiacchiti e malmessi, The Mobfathers riprende i fasti di un genere tra i più caratterizzanti per Hong Kong e li vira in una chiave politica strettamente connessa con i fatti di cronaca che hanno coinvolto l’ex colonia inglese. 

In una carriera cinematografica che abbraccia più di cinque decenni come regista, attore, coreografo di azione, produttore e molto altro, Sammo Hung ha arricchito enormemente il cinema di Hong Kong con il suo duro lavoro e il suo spirito innovatore, che spazia tra i generi più diversi e per questo il Far East Film Festival 18 ha deciso di assegnargli il Gelso d’Oro alla carriera. Per il suo ultimo film Hung è regista, coreografo e protagonista,  nei panni di un ex agente della squadra di protezione civile d’élite Central Security Bureau che ora vive nell’estremo nord della Cina. La vita da pensionato però è tutt’altro che idilliaca: il vecchio accusa i primi segni di demenza senile ed è ossessionato dalla perdita devastante della nipote, scomparsa mentre era affidata a lui. The Bodyguard mette insieme azione - sia comica che cupa - e dramma delicato, confermando ancora una volta le capacità di Sammo di rinnovare le miscele di generi in nome dell’intrattenimento.

Problemi interni alle triadi, legami familiari e tensione politica entrano in collisione in The Mobfathers, una cupa epopea sulla malavita del prolifico autore hongkonghese Herman Yau. Al centro di tutto c’è Chuck Lam (Chapman To, anche produttore), un capo divisione della potente banda criminale Jing Hing, che finisce in prigione dopo una sanguinosa rissa di strada e che quando esce, parecchi anni dopo, si ritrova catapultato al centro di una caotica elezione criminale. Chuck sa cavarsela con la mannaia e affronta energicamente i combattimenti tra fazioni, ma ne viene messo in luce anche il lato familiare, quando si sforza di ristabilire un contatto con il figlio che non vedeva da anni e si dà da fare perché il bambino possa andare in una buona scuola e altro ancora. Chapman To conferisce un atteggiamento rilassato a questo ruolo poliedrico, passando da episodi divertenti quando si trova dietro le sbarre a materiale di gran lunga più audace man mano che si inasprisce la disfida elettorale. Come suo antagonista Gregory Wong è divertente nel ruolo di un pacchiano e sfacciato volpone che sa il fatto suo, mentre Anthony Wong si fa notare nei panni del sinistro capobanda dalla voce roca che regge le fila di tutto. 

 

La visione che più di tutte rimarrà impressa in questa edizione del FEFF arriva però dalla Thailandia ed è la più nitida, angosciante, caustica e dolente messa in scena del raccapriccio esistenziale e generazione dei tempi moderni. Heart Attack, ispirato probabilmente alla esperienza personale del suo scrittore e regista Nawapol Thamrongrattanarit, esplora la vita quotidiana di un grafico freelance, Yoon.

Buona parte della storia descrive le condizioni lavorative dei liberi professionisti in Thailandia, oberati di lavoro, con una disponibilità di denaro  insufficiente, senza amici né previdenza sociale. La vita quotidiana di Yoon continuerebbe così, se un giorno non comparisse sulla sua pelle una strana eruzione cutanea. Lui va a farsi vedere da una dermatologa, inaspettatamente dolce e della sue stessa età, la quale gli prescrive dei farmaci che hanno un impatto enorme sulla sua vita quotidiana. 

Nawapol Thamrongrattanarit è forse lo scrittore e regista più famoso e di moda della Thailandia, ed è conosciuto in Europa solo ai pochi appassionati che hanno avuto modo di vedere Mary Is Happy, Mary Is Happy alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013 (che è stata direttamente coinvolta nella produzione con il progetto Biennale College Cinema). Il film si rivelò un successo a sorpresa, nonostante la limitata distribuzione e i discreti incassi in patria, soprattutto grazie alla crescente notorietà come scrittore del suo giovane autore in grado di rivolgersi ad enormi fette di lettori e lettrici della propria generazione.

Thamrongrattanarit è conosciuto per essere un regista perfettamente a suo agio sia nel cinema d’essai sia nel cinema mainstream e di questo connubio Heart Attack ne è la sintesi esemplare: il ritmo, l’azione, il romanticismo non vengono a mai a mancare, con una ricerca nella messa in scena che spinge verso una narrazione spontanea ma non scontata o vanamente ammorbidita. La vita caotica di Yoon è illustrata mediante l’uso della camera a mano, mentre la maggior parte delle altre scene sono state riprese a debita distanza.

Tutto il resto – il montaggio, il trucco, la recitazione – viene lasciato a un livello minimale, in contrasto con le interpretazioni sopra le righe che sono comuni in Thailandia. Lo stile di scrittura di Thamrongrattanarit è sempre lo stesso: una specie di satira empatica, resa grazie a caratteristici dialoghi disinvolti e incisivi; l’autore si prende gioco dei modi di vivere datati e delle opinioni dei suoi vecchi ma non li insulta mai, scherza soltanto e, nel contempo, impostando il tutto come una storia di formazione, rende evidente ciò che ama. Heart Attack è diventato il secondo film di maggiore incasso dell’anno e ha realizzato più di 2,2 milioni di euro, oltre a fare man bassa di diversi premi thailandesi. 

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