Far East Film Festival di Udine 21
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Focus sulla commedia indipendente coreana.
Abbiamo case degli inganni dei sensi, dove rappresentiamo tutti i generi di giochi di prestigio, false apparizioni, imbrogli e illusioni e le loro falsità.
Francis Bacon, 1626.
In un mercato in continuo mutamento, in cui la fruizione di immagini si moltiplica a dismisura così come i dispositivi attraverso i quali è possibile goderne, esiste davvero uno spazio per la produzione indipendente e slegata dalle major? E se c’è, che attenzione o interesse riesce a riscuotere da parte degli appassionati, degli esploratori, degli addetti ai lavori o addirittura dei semplici spettatori che vogliono scoprire una realtà forse più essenziale ma non per questo meno autentica?
Quel che è certo, senza un necessario approfondimento - per quanto esiguo e sporadico - e la curiosità pionieristica verso il nuovo, non si potrebbe alimentare alcuna riflessione, finendo per lasciare ogni possibile domanda in bilico nella lacunosa e buia fossa dell’indifferenza.
Ben venga dunque la breve e parallela intromissione all’interno della consueta selezione popolare del Far East Film Festival, di tre titoli significativi della commedia indipendente della Corea del Sud degli ultimi anni.
Nomi sconosciuti, mezzi risicati, ambientazioni intime e tangibili, attori ispirati, percorsi narrativi fuori dagli schemi e libertà di sperimentare. Tutti elementi difficilmente riunificabili se non in un territorio veramente autonomo e svincolato dalle rigide regole del consumo delle grandi masse.
Di fronte a una crisi sempre più profonda in patria, dove i finanziamenti governativi sono da decenni completamente azzerati, la scelta di attrarre un pubblico attraverso il film di genere non appare promettente, soprattutto per la commedia, e, ancora di più, per una commedia intrisa di elementi avulsi e splenici, coordinata verso una contemporaneità più inquieta e meno imbellettata.
Un oblio certo e prefigurato dunque, una lotta impari e un destino amaro. Proprio per questo i registi di quesi film meritano di essere accolti e citati. E dopo aver soddisfatto la visione è ancora più forte la convinzione che queste storie siano spesso di gran lunga più intense, brillanti e sediziose dei loro legittimati e ben più dispendiosi corrispettivi commerciali.
Tre I film proposti per questa incursione: Passing Summer di Cho Sung-kyu, Saem di Hwang Kyu-il e Coffee Noir: Black Brown di Chang Hyun-sang.
Il primo si svolge interamente nella bellissima isola di Jeju, e segue le vicende di quattro personaggi che alloggiano in una pensione sulla spiaggia. Siamo fuori stagione, e quindi non c’è quasi nessuno in giro. In-gu è arrivato sull’isola per trascorrervi qualche giorno, ma appare fin da subito infastidito e a disagio. L’uomo sembra insoddisfatto della sua stanza e del cibo locale, ma la vera fonte del suo fastidio diventa palese in seguito: In-gu è l’ex fidanzato della moglie del proprietario della pensione. Non gli interessa la vacanza – ma vuole affrontare la sua ex e ottenere alcune risposte sul loro passato. Quella che sembra destinata a diventare una situazione profondamente problematica invece cambia improvvisamente tono, a causa di una coincidenza. Ci sono altre due donne che soggiornano in quella pensione: Chae-yoon e Ha-seo. La civettuola Ha-seo, attirata in questo posto dalla sua fama di luogo per surfisti, è delusa di scoprire che in questo periodo dell’anno non c’è molta gente in giro. Chae-yoon è più introspettiva e sembra felice di rilassarsi e fare la turista per caso, ma avrà una sorpresa inattesa: Jeong-bong, il proprietario della pensione, lavorava con lei a Seoul qualche anno prima. E, dal modo in cui si comportano l’uno con l’altra, sembra che non fossero solo semplici colleghi.
Il secondo ci porta a conoscere Du-sang, un ragazzo ossessionato dal suo primo amore, Saem. Ha perso ogni contatto con lei da diverso tempo, ma non riesce ancora a cancellarne il ricordo e ora che ha da poco compiuto vent’anni non pensa ad altro che a ritrovarla. Sentendo che potrebbe essere all’università a Seoul, vi si reca e si trasferisce nella camera in affitto di un suo amico. Ma c’è un problema: un incidente d’auto gli ha lasciato la prosopagnosia. Chiamata anche “cecità fisionomica”, è un deficit che impedisce al paziente di riconoscere i tratti di insieme di un volto – anche se altri aspetti del suo riconoscimento visivo rimangono inalterati. Per certi versi Du-sang può condurre una vita del tutto normale, ma questa malattia rende il suo obiettivo di individuare Saem particolarmente difficile. Nei giorni che si susseguono incontrerà tre donne, ognuna delle quali si relazionerà con lui (o cercherà di approfittare di lui) in modi diversi. Ma ai suoi occhi tutte somigliano a Saem.
Il terzo invece ruota attorno all’esclusiva caffetteria Black Brown, destinata alla chiusura quando il governo nazionale dichiara il caffè pericoloso per la salute perché dà forte assuefazione. Vengono approvate leggi che lo mettono al bando e si stabilisce anche una data oltre la quale chiunque venda o beva caffè sarà arrestato e severamente punito. Ma il Black Brown è gestito da veri amanti del caffè che non hanno alcuna intenzione di ottemperare a leggi che considerano ingiuste. E, mentre stampano nuovi menù con una selezione di tè e vari tipi di bevande aromatizzate alla frutta, iniziano zitti zitti la preparazione di un’attività clandestina che verrà condotta a tarda notte e in segreto.
Pur godendo ognuno di questi titoli una propria specificità ed esiti più e meno riusciti - Passing Summer colpisce per la delicatezza e lievità nell’assecondare la fragile emotività della gestione dei ricordi e della solitudine, mentre, purtroppo, Coffee Noir: Black Brown non riesce in definitiva a dare un corpo unitario alle varie declinazioni del suo amalgama - quel che emerge è la consapevolezza dell’inganno della vita e della rappresentazione che ne consegue da parte dell’operare scopico. Nel continuo lancio e ritorno del desiderio, gli autori indipendenti appaiono molto consapevoli della limitatezza del concetto di realtà di fronte allo sconfinato e insidioso dispositivo pulsionale cinematografico.
Quel che ne risulta è un innesto nel perfetto quadro realistico della messa in scena: la perseveranza della ricerca dell’amore perduto da parte del protagonista di Saem appare sulla carta uno spreco energetico inutile e noi stessi, nel cercare di seguirlo, entriamo in un vortice di confusione nel quale ogni nuovo incontro con una ragazza ha l’aria di un deja-vu. Cosa stanno dunque vedendo i suoi occhi? Quale consapevolezza possiamo avere rispetto a ciò che ci appare e crediamo di sperimentare?
Allo stesso modo, il mondo di Coffee Noir: Black Brown appare in tutto e per tutto uguale al nostro, eppure nasconde qualcosa di occulto, regole pronte ad esplodere e una voglia di ribellarsi all’imposizione della normalità. Il regista sembra voler raschiare quella cortina di immutabile realismo e far emergere l’illusione che essa tende a celare.
Illusione e falsità che i protagonisti di Passing Summer hanno così candidamente imparato a governare e soffocare, finendo per divenire una sorta di rappresentazioni rispettabili delle loro ambiguità.
“È possibile conoscere come è fatta la realtà indipendentemente dalla mediazione della nostra mente? Possiamo prescindere dalla condizione di esseri umani conoscenti e storicamente determinati ed elaborare un pensiero dell’assoluto? È lecito sostenere di avere accesso a quello che gli anglosassoni definiscono il “great outdoor”, il grande fuori, ovvero quello che è esistito, esiste ed esisterà indipendentemente dal nostro stare al mondo? “.
Non è di certo a queste colossali domande che questi film cercano di dare direttamente una risposta. Ma attraverso il cinema è possibile operare una formulazione del linguaggio che travalica la mera rappresentazione di una storia per farsi largo verso diagonali meno codificate e proprio per questo, come spesso accade nella scarsezza di mezzi, la scrittura emerge come incombenza sostanziale e vivifica: proprio nei dialoghi concisi e sommessi e nello scambio comunicativo tra i personaggi avviene quel passaggio fondamentale di scarto verso la banalità a favore di una ricognizione di un’alterità direzionale verso scenari ipotetici pronti a fecondare dubbi e insistenze teoretiche e morali.
Non a caso ogni epilogo in queste commedie non pone alcuna fine e non risponde ad alcuna domanda, ma anzi, apre il discorso ancora di più, come a volerci dire: “è còmpito vostro ora fare i conti con voi stessi e la vostra mimesi”.
Secondo la psicoanalisi lacaniana il soggetto del desiderio inconscio non risiede nei propri istinti biologici e corporei che la civiltà non riesce a reprimere, ma si costituisce in uno spazio di incertezza linguistica dove il significato di una serie di significanti è incerto e lascia spazio a una domanda: cosa vogliono dire queste parole? Che cosa volevo dire io con queste parole? È come se nelle nostre stesse parole noi interrogassimo la natura del nostro desiderio più che verificare la loro adeguazione a un’intenzione preesistente il linguaggio.
I corpi dei protagonisti dei film appaiono prima di tutto come organismi interroganti. E il loro riflesso si spinge oltre lo schermo. Oltre la limpida narrazione di qualche scorcio di vita. Una vita qualsiasi. Senza eroi, senza vincitori, senza compiacimento. Ma non per questo priva di un naturale intimo sorriso.