Far East Film Festival di Udine 7
Il Far East Film Festival costituisce davvero un’occasione unica, per gli amanti del cinema asiatico soprattutto, ma non solo. Un festival accogliente, ben strutturato, dove è possibile incontrare e – volendo – conversare con chiunque, dagli attori e registi e direttori della fotografia presenti con i loro film, ai direttori di altri festival, come il sinologo Marco Müller, che ha probabilmente prodotto qui l’idea di dedicare larga parte della prossima mostra veneziana proprio al cinema orientale. Potrebbe essere una semplice banale momentanea tendenza, quella per il cinema orientale, e in particolare per i cappa e spada cinesi e per i kung-fu hongkonghese, dovuta agli effetti di alcune pellicole hollywoodiane che ne hanno riproposto, appunto, temi, ambientazioni, peculiarità (su tutti, ovviamente, il caleidoscopio di Kill Bill).
Una tendenza che anno dopo anno, osservando le presenze che popolano Udine in occasione della sua completa migrazione verso est, è in aumento, e determina la formazione di schiere di appassionati, curiosi, esperti. Del resto proprio qui a Udine si capisce, a volte rimanendo stupefatti, quanto sia vigorosa la produzione di Cina, Giappone e più ancora di Corea del sud e Hong Kong e si scoprono cinematografie malesiane, filippine, thailandesi praticamente sconosciute.
Una sorta di bilancio, quello condotto ogni anno dal Far East, sulla produzione cinematografica orientale riservata ai titoli più commerciali o meglio, popolari, non solo d’essai. Il motivo è presto detto: la maggior parte dell’autorialità cinese, giapponese, coreana, gode del vasto pubblico dei festival più importanti in tutto il mondo ed ha la fortuna di essere ampiamente distribuita. Ed è così che gli oltre sessanta titoli presenti nel fitto programma del festival (sessantasei per la precisione, tutti inediti), risultano essere una continua scoperta di nomi e visioni conosciuti solo da quel pubblico che oramai si può definire abituale o settorialmente competente. Ed è proprio il pubblico a giudicare, perché il bello di questo festival è anche la mancanza di qualunque tipo di giuria tecnica prestabilita così che non viene assegnato nessun premio, se non quello – simbolico – del pubblico.
Come se non bastasse, nel corso della settimana festivaliera, c’è anche spazio per una mirabile retrospettiva composta da sedici opere prodotte dalla major giapponese Nikkatsu nel corso degli anni Sessanta e Settanta, anni in cui vennero prodotti freneticamente centinaia di titoli di genere e stile molto diversi, “espressione delle più disparate influenze derivate dal cinema occidentale (da Duvivier, passando da Godard fino ad arrivare a Fellini e al western)”.
L’incontro con tre direttori della fotografia – il coreano Kim Hyung-koo (di cui sono stati presentati Memories of Murder di Bong Joon-ho e Peppermint Candy di Lee Chang-dong), il cinese Gu Changwei (presente anche come regista di Peacock, vincitore dell’Orso d’Argento all’ultimo festival di Berlino e al Far East del premio del pubblico), già fotografo stimato da Zhang Yimou in Sorgo Rosso e da Chen Kaige in Addio mia concubina, il giapponese Tamra Masaki (che ha fotografato il bellissimo Lady Snowblood di Fujita Toshiya del 1973, presentato nel corso del festival, citato da Tarantino per la sequenza del duello sulla neve) – è stata l’occasione per riflettere sui meccanismi e le modalità che portano alla realizzazione delle immagini, delle atmosfere, delle sfumature che tanto affascinano per la loro differenza rispetto ad un conformismo visivo a cui siamo troppo spesso abituati nel nostro cinema occidentale. Un percorso di ricerca e una meditazione sui significati che diventa una grande lezione di stile.
Il cinema coreano rappresenta di sicuro una delle realtà più fervide nel panorama del cinema mondiale. Non è un caso che sempre più frequentemente film coreani riscuotano premi e successo ai festival e godano poi di una degna distribuzione nelle sale (impensabile qualche anno fa). Un esempio su tutti è Kim Ki-duk: l’eclettico autore di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera e Ferro 3, ora nelle sale con La Samaritana, è il capostipite di una cinematografia molto apprezzata in occidente ma che in patria non ottiene il medesimo successo. Stesso discorso per Park Chan-wook (Old Boy), Lee Chang-dong (Oasis) e Jang Sun-woo a cui la prossima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro dedicherà una retrospettiva completa.
Cinema di genere il più delle volte, che minimizza la straordinaria fruttuosità di una realtà a noi (troppo) lontana che ci guarda con profonda considerazione (soprattutto verso il passato). Attraverso i pochi autori che arrivano da noi, è già possibile scorgere lo slancio vitalistico di un cinema che sperimenta, mescola, inventa, salda, genera forme creative, spesso tra loro le più disuguali, e, in definitiva, risulta essere il più innovativo. La selezione dei dieci film coreani presenti a Udine offre la rarissima possibilità di infiltrarsi nella produzione dei film destinati, prima di tutto, al pubblico d’oriente. Un pubblico tutt’altro facile da soddisfare che preferisce (anche lì si ripete la stessa storia) le megaproduzioni made in Usa. Un pubblico affamato di star, richiestissime, garanti del buon successo al botteghino.
Ne è un palese esempio Everybody Has Secrets di Chang Hyun-soo, con protagonista il super desiderato Lee Byung-heon, sul quale è costruito tutto il film, remake di About Adam di Gerard Stembridge. Una gradevole commedia degli equivoci che non manca di brio, ironia e romanticismo, senza mai scadere nella volgarità e senza perdere mai il ritmo della narrazione.
È proprio con la commedia che il cinema coreano si confronta sempre più spesso, vuoi perché tendenzialmente più gradita rispetto al (melo)dramma, vuoi perché complessivamente meno sviscerata e complessa da affrontare nelle sue varianti. Due i due titoli ascrivibili al genere presenti al festival: Flying Boys di Byun Young-joo e Someone Special di Jang Jin.
Il primo una commedia generazionale con protagonisti un ragazzo e una ragazza prossimi all’esame di maturità, il secondo curioso esempio di un’inusuale commedia romantica. Di quest’ultimo in particolare colpiscono la leggerezza e l’armonia, con due attori magnificamente disinvolti e coinvolgenti, dove il tempo sembra congelarsi nella serie di eventualità che producono (di fatto) l quotidianità. Uno sguardo pudico che sembra scovare e sorprendere due vite che si sfiorano e si guardano, proseguendo poi nella loro ineluttabile continuità.
Sul versante opposto alla commedia sono stati presentati tre titoli profondamente densi: A Family di Lee Jung-chul, un intenso melodramma su un difficile rapporto tra un padre malato terminale e la figlia appena uscita di prigione, che tende eccessivamente alla ricerca della commozione e della lacrima e con un trasporto che il più delle volte appare rigorosamente ricercato; il maturo Road di Bae Chang-ho, regista saldamente strutturato nel genere, che ripercorre la memoria di un uomo attraverso un lungo flashback nella Corea degli anni Settanta; il coraggioso e tenero Green Chair di Park chul-soo, storia d’amore vissuta da una trentenne divorziata innamorata di un ragazzo all’ultimo anno di liceo. Una storia d’amore anomala che si spinge e lotta contro la morale comune, perbenista e stolta, pronta a giudicare le apparenze e la forma. Il merito di questo film è proprio il mostrare i sentimenti, avvicinarli a quelli di qualunque altra storia d’amore, mostrare il sesso e la passione senza limitazioni formali, serenamente, caricando di intensità le carezze e le mancanze, mostrando la regolarità dei bisogni e della fisiologia come, appunto, il sesso, il sonno, i baci, il cibo, i sorrisi. Lo sviluppo è imprevedibile per la capacità di essere allo stesso tempo eversivo e minuziosamente accorto a definire attraverso i dettagli il soggetto e il contesto di sviluppo della relazione amorosa. Di difficile comprensione per gran parte del pubblico in sala, forse per l’incapacità di avvicinarsi al tema, ma decisamente affascinante e, tutto sommato, inusuale, per le modalità che portano allo sviluppo della stravagante narrazione.
Concludono la selezione pellicole di genere completamente differente: non poteva mancare l’horror con R-Point di Kong Soo-chang, ambientato nella Cambogia occupata dai militari; Some di Chang Youn-hyun, commistione di thriller, giallo e storia d’amore; To Catch a Virgin Ghost di Shin Jung-won, che, per contro, fa la parodia proprio dell’amato (dai coreani) horror e del gangster movie. Arahan di Ryu Seung-wan sembra invece uscito direttamente da un fumetto con supereroi con superpoteri che hanno però il volto comune di proletari. Un film d’azione dichiaratamente commerciale intriso di agitate sequenze che hanno come sfondo un glorioso ritmo musicale, che deve molto ai film di kung-fu di Hong Kong, condito però con una spassosa nota di umorismo e ironia con la quale i personaggi sembrano confrontarsi per tutta la durata della storia. Anche qui, come spesso capita nelle produzioni coreane, l’ibrido è l’essenza del rinnovamento dei generi e la spinta promotrice di una cinematografia vivida e mutevole.