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La corte (L'hermine)

Regia: Christian Vincent

Francia 2015

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Una sorpresa. L’Hermine (in italiano più banalmente La corte) si è rivelato, con buona dose di stupore, una delle rivelazioni inattese di Venezia 72: il cinema francese - soprattutto quello di piglio più popolare - rincorre affannosamente modelli espressivi sempre più consolidati, stantii e anestetizzanti dai quali però, a ben vedere, attraverso un’alchemica mescolanza degli elementi costitutivi del segno cinematografico è possibile - in maniera ovvia quanto inattesa - ancora generare frutti dal sapore armonioso, delicato e persistente capaci di saziare il languore e umettare l’occhio. 

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L’ermellino di cui il titolo originale fa riferimento, è quello della toga indossata ogni giorno dal giudice e presidente della corte d’Assise di Saint-Omer, nella regione nordoccidentale del passo di Calais (una delle più povere della Francia), Xavier Racine, il cui nome è diventato sinonimo di irreprensibile fermezza, rigore e severità della pena. L’ermellino fin dalla prima inquadratura, determina simbolicamente il ruolo e la posizione del potere, di chi sta in cima alla piramide che stratifica la condizione sociale degli individui con le loro disuguaglianze e i loro privilegi, poiché non è tanto il processo del giovane accusato di aver ucciso la figlia di sei mesi a costituire il nocciolo della tensione narrativa, quanto, piuttosto, l’abile e complessa costituzione umana stabilita dal triangolo magistrato, giuria popolare, imputati e testimoni. E se la temibile compostezza dell’animo di Racine non si piega nemmeno di fronte ad un’allarmane febbre stagionale da cui egli è afflitto nei tre giorni del dibattito, a sconvolgerlo sarà la presenza tra i giurati di una donna, un’anestesista di origini danesi conosciuta anni prima, quando era stato ricoverato in ospedale e per la quale non è in grado di trattenere uno stato d’animo puro e incontenibile. 

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L’aula del tribunale dunque rappresenta l’incontro e la riunione del popolo, di tutte le classi che lo compongono assieme alle ambigue e sottili differenziazioni e complessità e, assieme, il luogo per un dibattimento interiore e un’indagine sottile e mai servilmente o prepotentemente svelata dei sentimenti che ogni persona incarna con la propria individualità e l’innocente consapevolezza che nulla di fatto potrà mai modificare questa condizione assodata e ratificata. 

Tutta la forza e la straordinaria, trattenuta, sottile carica espressiva del giudice Racine è sorretta da una prova indimenticabile di Fabrice Luchini, capace di donare e arricchire la scena e i testi di una sceneggiatura minimale e finissima, intelligente e sofisticata del sodale regista e sceneggiatore Christian Vincent, con un’interpretazione che trascende la mimesi e svela, con uno sguardo, il dirompere fragile dell’amor fou nello spirito di colui che ha assunto la maschera cinica e razionale del rigore della legge e dell’ossessione solipsistica per un’indifferente, composta e anodina raffigurazione di sé. 

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Pertanto non sorprende il verdetto della giuria del festival veneziano presieduta da Alfonso Cuaròn che ha assegnato il premio per l’interpretazione di Luchini e per la sceneggiatura di Vincent. Un doppio riconoscimento che costituisce un fatto di una certa rilevanza per una commedia, d’autore certo - anche se un autore riscoperto dato che dopo il folgorante esordio nel 1990 con La timida (La discrète) Vincent aveva preso una strada meno rifinita sul piano della messa in scena e della definizione dei personaggi - e in costante equilibrio tra registri diversi che sfumano dallo humor a fin quasi la tragedia. 

E in questa dicotomica interpolazione di generi si scorge un respiro classico nella struttura dell’operazione filmica operata da Vincent, che dice: «La corte è un po’ come un teatro, con il pubblico, gli attori, la sceneggiatura, le quinte. È il regno della parola, fondato essenzialmente sulla natura orale del dibattito». Il cognome del giudice, Racine, appare a questo punto meno casuale: il dramma di un amore segreto mai compiuto verso l’unica donna che non si è forse mai potuto amare davvero, il riconoscimento di un desiderio in grado di sgretolare le granitiche certezze di una vita, l’esito incerto proprio di ogni corrispondenza affettiva. 

Ancora una volta emerge il racconto del sodalizio inestricabile tra la macchina da presa e il misterioso resoconto delle pieghe della natura umana. E non è poco, di questi tempi. 

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