top of page

Lo sguardo dei maestri: Ingmar Bergman

Il cinema, si sa, trae il suo nutrimento endogeno dallo sguardo dello spettatore. Senza la possibilità di mostrarsi, di farsi analizzare, di scoprirsi per la sua essenza autoriale, il cinema non vivrebbe. Non solo i grandi festival cercano di promuovere questa cultura e quest'arte (per fortuna) e, anzi, l’irrequieto proliferare di iniziative – ognuna con una specifica attitudine – su tutto il territorio nazionale, fornisce un concreto apporto per la destrutturazione di una certa cultura cinematografica, merceologica e imperante. Si può collocare in quest’ottica la settima edizione del Lo sguardo dei maestri (novembre 2004 - febbraio 2005), promossa dal Centro Espressioni Cinematografiche di Udine e dall’associazione culturale Cinemazero di Pordenone, dedicata quest'anno all’opera complessa di un indiscusso maestro qual è Ingmar Bergman.

Una retrospettiva completa sulla sua filmografia e un convegno incentrato sull’opera multiforme dopo l’ufficiale congedo dal cinema del 1982, con Fanny e Alexander. Un addio ingannevole dopo la realizzazione controversa di un capolavoro, un concentrato delle passioni, della vita, dei temi cari al regista scandinavo. Un addio amaro, segnato dalle difficoltà distributive che il profluvio creativo incontenibile di Fanny e Alexander (oltre le quattro ore) incontrava per il suo essere esasperatamente e prettamente cinema, personale, dell’anima, e non commercialmente appetibile. Un addio (e a questo punto possiamo davvero ribadirlo) fasullo, incapace a sostenersi proprio per l’inesauribile voglia, volontà, necessità, dovere di svelarsi e compiersi attraverso le immagini, nel loro valore automaticamente identificativo - amore bergmaniano primordiale – che si cost(it/r)uisce attraverso le parole.

Sono proprio le parole – e la produzione del Bergman scrittore ne è la chiara dimostrazione – il motore fondativo delle immagini, l’espressione con la quale Bergman non verrà mai a compromessi, la possibilità di emanarsi a dismisura attraverso sceneggiature (è sua quella, splendida, de L’infedele di Liv Ullmann), pièces teatrali, romanzi, autobiografie. Il congedo per Bergman ha significato un ritorno al teatro, una riappropriazione naturale e inequivocabile verso una passione innata e mai cessata – e del resto, non a caso, ne sono un palpitante segno gli occhi sognanti di Alexander, in apertura di Fanny e Alexander, mentre penetrano il teatrino oggetto di svago, emblema e archetipo di un’illusione che, in varie forme, ricorrerà per tutto il film.

 

È col teatro che nel 1984 Bergman, rievocando il “Sogno” di Strindberg torna a fabbricare immagini in movimento: Dopo la prova segna l’avvio verso un percorso nel quale si confronterà con la nuova tecnologia digitale e la nuova destinazione televisiva. Un percorso che, ancora una volta, analizza e sviscera le relazioni umane, di eccezionale acume d’indagine intellettuale e psicologica, dove i diversi piani dell’esistenza e della rappresentazione scaturiscono i conflitti interiori; dentro le ossessioni e la follia della mente, dentro gli intrecci sentimentali, muovendosi – senza indugi e con una naturalezz impercettibili – tra gli scambievoli legami delle diverse generazioni.

Con Il segno (1986) Bergman torna a Uppsala (sua città natale) per mostrarci limpidamente l’evolversi la storia di un amore assoluto, total(izzant)e, preda di un incubo religioso esasperante, dove il maligno risiede in una macchia scusa nell’occhio. Il Segno, nuovamente, riprende molti temi cari al regista, ribadendo questa caratteristica come una costante stilistica del fare cinema bergmaniano. Una modalità espressiva per duellare con il proprio passato e per riflettere sul presente, senza il bisogno di fornire soluzioni semplicistiche o sagge considerazioni ideali.  Spesso la via d’uscita è tragica, sconfortante, amareggiante, ma non per questo unicamente pessimistica. 

Vanità e affanni (1997) rappresenta un filo diretto con Fanny e Alexander: lo zio burlone e sguaiato Carl, con un animo fanciullo, offre a Bergman la possibilità di perpetrare uno sviluppo riflessivo sulle due forme costitutive dell’espressività dell’autore.

Cinema e teatro si mescolano con la vita stessa di Carl, prendendone le mosse, autodefinendosi, codificandosi – la realizzazione di un film parlato dal vivo è il progetto di Carl, che già in Fanny e Alexander aveva regalato la magia di un proiettore al giovane protagonista - e riallacciandosi al meccanismo del racconto intimista che sarà assunto fino in fondo con  Sarabanda (2003).

Un saluto quasi definitivo, per lo spessore dei contenuti e l’eccezionale costruzione formale, Bergman sembra ribadirlo definitivamente proprio con Sarabanda. A nulla importa che la sua destinazione sia la televisione, dentro c’è tutta la sensibilità del vecchio (ma non per questo meno lucido) Bergman. Un percorso che attraversa la sua creazione, riesaminandola con nuove prospettive e, perciò, ampliandola. Ritroviamo - ancora una volta - in Sarabanda, gli attori cari al regista, quasi come fossero una compagnia che di volta in volta porta in scena un nuovo spettacolo. Attraverso gli sguardi di Liv Ullmann e Erland Josephson, si ha la netta sensazione di non far parte di una messa in scena, e proprio grazie a questa intensa naturalezza espressiva e registica opposta al contrastante rigore del set artificiale, Bergman riesce a produrre uno straordinario esempio di cinema capace di specchiarsi negli occhi di chi guarda. Bastano piccoli movimenti, cenni d’intesa per far esplodere la tensione drammatica e, allo stesso tempo, stabilire l’ordine. Dopo Sarabanda, Bergman – queste le sue parole - si godrà la sua vita nell’isola di Faro a scrivere e guardare i film degli altri.

Non si sa però se resisterà alla tentazione di mettersi di nuovo alla prova, per l’ultima volta.

Ingmar Bergman.jpg
bottom of page