Locarno Film Festival 69
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Bisogna riconoscere il coraggio e il valore della sfida, al di là del risultato, al Festival del film di Locarno edizione numero 69. Se si può definire ancora un ruolo distintivo al più longevo evento cinematografico svizzero, di certo quest’anno, quello della scoperta e della ricerca, è stato pervicacemente sostenuto e braccato, fino a limiti a volte scontati, a volte abusati, altre insperati. Come sostenuto dal direttore artistico Carlo Chatrian alla presentazione del programma, quest’edizione ha segnato “il ritorno allo spirito originario del Festival, quello che ha dato spazio alle cinematografie meno note e a registi emergenti, quello che ha fatto di Locarno un festival di avanguardia, politico e poetico, visionario e controcorrente”. L’uniformità di intenti ha però prodotto uno sbocco discordante: la visione era spesso disturbata da dilemmi sul quale futuro potrà avere il cinema se il nuovo appare così stanco, anodino e spesso asservito ad una sorta di autocompiacimento verso una referenzialità un po’ misera e circoscritta, e in qualche caso lo sconforto ha preso il sopravvento.
Nel panorama delle eccezioni sarebbe un torto non segnalare la visione di un film la cui sinossi non è stata accolta dai più come particolarmente invitante: “Le bestie arrivano di notte. Sentono. Resistono. Prima dell’alba, un giovane le conduce a morire mentre il suo cane scopre un mondo spaventoso che sembra non avere fine”. L’autrice è la giovane filosofa francese Maud Alpi, e Gorge, coeur, ventre (Still Life il titolo inglese ma che letteralmente si traduce Gola, cuore, ventre) è la suo opera prima, inserita all’interno della sezione competitiva Cineasti del presente.
Decidere di costruire un film all’interno di un mattatoio, o meglio decidere di ergere il mattatoio come luogo cardine di una riflessione che va ben oltre la supposta e programmatica crudeltà assassina per il cui scopo è stato progettato lo stesso, richiede una consapevolezza di osservazione in grado di spingersi oltre la documentazione dello svolgersi di un rituale lavorativo senza il quale i menu delle nostre tavole sarebbe radicalmente orientato verso altri sapori. Perciò, la necessità della quale si è sentita investita la regista - e di cui ha brevemente accennato nella breve introduzione prima della proiezione in sala - di raccontare questa esperienza che di fatto è e rimane un tabù - come del resto lo è la morte nella nostra società cristiana occidentale - si è voluta tradurre in uno spettacolo che slabbra le limitazioni rigide del documentario per far entrare la narrazione, insolita, del vissuto animale. E’ nell’assunzione di questo punto di vista, e più nel dettaglio, del punto di vista del cane Boston, che si riconosce il valore di quest’opera che, come raramente può accadere, si può considerare frutto di originalità.
La Alpi imposta il proprio sguardo all’altezza di animale, adattando la fotografia con segni evidenti (immagine traballante e opaca, per esempio) di quell’ipotetica visuale canina che il Labrador utilizza per indagare il mondo che lo circonda. Limitata e impossibilitata dunque, e per fortuna, a osservare il più delle volte il compiersi della brutalità della soppressione, questa, lascia lo spazio per uno svolgersi interiore da parte di chi usufruisce del film, e sviluppa di conseguenza un discorso che procede anche oltre le immagini. Un cinema calibrato, ponderato, senza bisogno di eccedere; un cinema nobile. L'autrice non ha alcuna paura a sottoporre l'essere umano a quella che potrebbe apparire come una degradazione: umano e animale sono identici, e non ha importanza come l'uno si serva dell'altro.
La libertà a cui andrà in contro, in un finale malinconico e intelligentissimo, il cane è l'explicit perfetto per inferire la dignità che spetta a tutte le creature. Una dignità fatta di libertà di scelta e di condivisione della stessa; istintuale, lontano da mistificanti legami, eppur consapevole che il dolore e il sacrificio non avranno mai fine.
Maud Alpi ha vinto lo Swatch Art Peace Hotel Award, di sicuro un premio che non verrà citato nei giornali ma, si spera, un riconoscimento che le permetterà di non perdere la fiducia nelle sue qualità di cineasta.