Locke
Regia: Steven Knight
UK 2013
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Chiunque può sbagliare. Non si capisce infatti perché Locke di Steven Knight, uno dei film più sorprendenti visti a Venezia, sia finito Fuori Concorso. Ma se a questo errore non c’è rimedio, se non quello che prima o poi il film possa comunque uscire in sala, per il peccato con cui deve fare i conti Ivan Locke, personaggio unico e assoluto del film, esiste una strada per la redenzione. Poco illuminata, lunga mezzo serbatoio di benzina, dolorosissima e senza possibilità di inversione.
Meglio non aggiungere troppi dettagli nel raccontare cosa affronterà Ivan Locke nel suo viaggio in autostrada per Londra, perché la sceneggiatura, perfetta, scritta dallo stesso Knight - qui alla sua seconda regia dopo Redemption, ma noto soprattutto come autore raffinato di testi per il cinema, la televisione e il teatro: suoi La promessa dell’assassino di Cronenberg e Piccoli affari sporchi di Frears - si sviluppa sulla tensione della rivelazione, frammento dopo frammento, delle reazioni e delle motivazioni che una sola, determinata, decisione, provocherà nella vita di un uomo. Un uomo che per deformazione professionale è abituato a prendersi la responsabilità, a gestire le persone e risolvere problemi, perché il suo compito è maneggiare un impasto mutevole come il calcestruzzo e costruire edifici; e nel farlo molti pensano sia il migliore di tutta l’Inghilterra. Quando vediamo per la prima volta il viso di Locke, chiuso dentro l’abitacolo della sua BMW, lui ha già fatto i conti con la propria coscienza, gli rimane solo di comunicarlo agli altri, alle persone che fanno parte della vita che con fatica ha fin lì costruito e che ora sta abbandonando.
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Negli ottantacinque minuti (il film si sviluppa in pratica in tempo reale, senza digressioni) che Locke impiegherà per arrivare a destinazione - e in questa sta la vera sfida, vinta, del film - non ci verrà mai concesso di lasciare la vettura in movimento, e il crescendo emotivo sarà affidato solamente alla suspense cadenzata dalle telefonate che dovrà affrontare il protagonista. Il telefono diventa dunque l’unico altro elemento cardine presente nella messa in scena, il fondamentale viatico che veicolerà il contrappunto della tensione dialogica con l’esterno che va frantumandosi.
Le voci degli interlocutori, di cui non viene mostrata alcuna immagine, rappresentano dunque un fuori campo necessario e ipotetico con il quale Locke deve crudelmente raffrontarsi. Lui con calma e metodo gestisce i problemi e le emozioni che ne conseguono, chiamata dopo chiamata, e mette le fondamenta per un nuovo inizio.
Anche qui l’involucro automobilistico (come in Cosmopolis e Holy Motors) assume un ruolo centrale, protettivo, liberatorio quasi, e rivela quell’identità addomesticata ma fertile, oltre la maschera che si è scelta di assumere all’esterno, al di fuori di esso.
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L’opera di Steven Knight si presenta come una sorta di road movie anomalo, manipolato, in cui il protagonista non è in fuga per aver commesso qualcosa di grave o verso un’illusione, ma al contrario va verso la consapevolezza di una verità, la sua, l’unica verso la quale sa di non potersi nascondere. Torna dunque la centralità del conflitto morale (al quale è sottoposto anche lo spettatore) già presente in Eastern Promises, e ancora una volta, senza alcuna pretesa di fornire risposte o categorie indeclinabili.
Le straordinarie doti interpretative di Tom Hardy (Bronson, Il cavaliere oscuro - Il ritorno, Inception, Tinker Tailor Soldier Spy, Lawless) fanno il resto: qui, per la prima volta, si scrolla di dosso la possanza del suo corpo e riesce unicamente con il volto a bulinare il dilemma dell’essere umano: solo, impaurito, determinato, Locke sperimenta la disperazione di un crollo, e l’azzardo di una nuova ricomposizione.
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L’eccezionalità di Locke, in definitiva, sta nel non compromesso della sua idea. La forza della scrittura, di un montaggio sobrio ma ricercato e di una fotografia che gioca nelle sfumature notturne e negli abbagli dei fari delle macchine, sono determinanti per spazzare via ogni possibilità di sopravvento delle noia.
Alla fine è nel dolore, e con ogni probabilità, nell’errore, che affonda inevitabilmente ogni cambiamento di vita. Ma è da esso che Locke riparte, e quel campo lunghissimo con cui ci lascia il film, non risponde ad alcuna pacifica certezza se non quella proprio dell’autenticità della pena.