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Marathon - Enigma a Manhattan

Regia: Amir Naderi

Usa 2003

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Il rumore frastornante. Un’incessante ossessione sonora. La metropoli. La patina sgranata del digitale, mobile e inquieto. Il bianco e nero, sporco e raffermo. Una ragazza, Gretchen, isolata nella moltitudine della massa autistica, in costante movimento tra i cunicoli della metropolitana. La maratona dei sensi, la celebrazione dell’iperrealismo. 

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L’iraniano Amir Naderi conclude la sua personale trilogia dentro la Grande Mela dopo Manhattan in cifre e A.B.C. Manhattan, riprendendo i temi ma estremizzando le forme. E’ da sempre uno sguardo inedito quello del regista, esule volontario negli Stati Uniti: poetico e contrastato, lontano dai cliché turistici e dall’ovvietà degli spazi hollywoodiana. Naderi imprigiona e ci mostra tutta la frenesia e la naturale assurdità della città, di cui la protagonista è contemporaneamente vittima e rappresentante. Una città pronta a scoppiare da un momento all’altro, una città che vive dentro il proprio delirio (ed è solo un caso, forse, che di lì a poco si sarebbero viste crollare le torri gemelle). 

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Il compito di Gretchen è riuscire a risolvere settantotto cruciverba in ventiquattro ore per battere il suo record personale. Per riuscirci, per trovare la concentrazione ideale, sceglie il trambusto di New York, solo e unico isolante capace di insonorizzare i suoi neuroni. Seguiamo impassibili e interdetti i movimenti della giovane ragazza, le sue corse, le sue crisi attraverso l’underground metropolitano - a volte avendo l’impressione di essere uno tra i tanti, anonimi nella moltitudine - ma soprattutto ascoltiamo il bombardamento sonoro a cui lei stessa è (auto)costretta. Lo stridio dei freni con le rotaie, lo sbattere delle porte dei vagoni, il brusio delle voci, i clacson, le migliaia di passi, l’aria, il vento, sono questi i veri protagonisti del film. I dialoghi sono quasi completamente azzerati: Gretchen non parla se non con se stessa. L’incontro casuale con un amico è solo un fastidioso disturbo da debellare al più presto con pochi gesti. Le uniche parole concesse sono i soliloqui della madre lasciati alla segreteria telefonica di Gretchen. Parole consce di non essere ascoltate, parole di conforto e incitamento a continuare e a non mollare, disarmanti per l’azzeramento comunicativo e l’allucinazione genetica che sembrano drammaticamente trasmettere. Non c’è spazio per il riposo e nemmeno per le funzioni primarie dell’organismo, tutto è una perdita di tempo e dev’essere calcolato. Al sopraggiungere della sera, Gretchen torna a casa in preda al tormento. La calma della casa provoca un affanno distruttivo, tutto va bene per riprodurre il frastornante habitat di esecuzione: i rubinetti aperti, gli elettrodomestici accesi, una cassetta con registrati i rumori della strada, il metronomo. Dopo lo sfogo, nella notte, a sette ore dallo scadere del termine, Gretchen trova la concentrazione e si rimette all’opera con meticolosa caparbietà. All’alba, stremata, l’attenderà una città ricoperta dalla neve, dai rumori ovattati, immobile, malinconica. 

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Volutamente ridondante, Marathon può apparire noioso solo a chi, troppo abituato all'accattivante cinema commerciale, si si trova impigliato in un meccanismo di comprensione che non lascia spazio alla sguardo e si limita allo svolgersi degli eventi. Nella regia di Naderi non è secondaria la straordinaria sapienza visiva delle riprese (in 16millimetri e in digitale), l'uso dei teleobbiettivi che sembrano infrangersi sulla protagonista così come su di noi, il senso ipnotico delle caselle bianche e nere, degli intervalli, delle parole crociate. Un'opera matura e affascinante.

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