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Mary

Regia: Abel Ferrara

Italia/Francia/USA 2005

Sono passati quattro anni dall’ultima, intensa e coriacea, opera di Abel Ferrara, Il nostro Natale. Un segno inequivocabile del tempo necessario per elaborare una nuova riflessione, che, per Ferrara, non coincide mai con le richieste di un pubblico pretenzioso o con la morale speculativa della logica produttiva hollywoodiana. Mary è un film denso, sofferto, complesso, più di quanto possa apparire. E non è affatto incomprensibile la reazione scettica del pubblico, della critica, della Mostra tutta di fronte alla raffinata condensazione metanarrativa raggiunta da Ferrara attraverso una serie di decise sequenze centellinate, soprattutto se si pensa che il motore scatenante dell’intero film è la figura di Maria Maddalena e, in definitiva – uno dei temi cari al regista – la religione.

 

Mary è un film che fonde più piani discorsivi e più punti di vista ma un solo, profondissimo, sguardo. Tre personaggi formano un’originale trinità e costituiranno il veicolo del discorso ferriano: Juliette Binoche/Marie è l’interprete di Maria Maddalena nel film Questo è il mio sangue (di cui vediamo la fine delle riprese in terra santa) del cinico e disilluso regista Matthew Modine/Ted, anche protagonista nella parte di Gesù Cristo; Forest Whitaker/Tony è un giornalista televisivo che per duplice motivo entrerà direttamente in contatto con i temi sollevati dal film con Juliette/Marie/Mary, che è allo stesso tempo This is my Blood e Mary, ed ha come motivo ispiratore la rivalutazione della Maddalena narrata dai vangeli apocrifi.

Ciò che può rendere la visione deludente ma oltremodo perturbante è lo scarso appiglio narrativo e consequenziale dell’opera. È necessario perforare la logica degli eventi e abbandonarsi di fronte al dipinto che con maestria viene tratteggiato da questo maturo Abel Ferrara. È la mescolanza dell’introspezione – che in vari momenti si può ritrovare scissa nelle precedenti opere – dell’autore ad essere abilmente (sotto e sovra)esposta e non la facondia e verbosa attitudine a voler esprimere concetti. In questo senso non sono casuali gli innesti notturni di New York, illuminati da una luce decadente e "religiosa", rivelazione, in prima istanza, del dramma vissuto dal giornalista televisivo, ma meno superficialmente, motore dell’accrescimento emotivo e riflessivo dello spettatore. Uno stato di straniamento pervade progressivamente la percezione di chi guarda, sintesi dell’inconsapevolezza di essere posti ognuno a fare i conti con la propria spiritualità, sia essa più o meno legata ad una condizione religiosa. Tutta l’operazione è condotta dal regista senza cercare il plauso di chicchessia, con l’avvedutezza di essere sottoposto alle critiche più facilone e con la dignità di non pretendere di insegnare o imporre nulla a nessuno. 

Non è solo Matthew Modine – come appare più chiaramente desumibile – a esprimere la voce di Ferrara: certo una parte dello stesso Ferrara pretende di avere il diritto di parlare in modo preponderante (senza mancare di aprire una polemica con la Passione di Gibson: “Perché ha fatto un film su Gesù?” - viene chiesto a Ted - “Perché quello di Mel Gibson ha incassato miliardi”), ma non è difficile pensare che anche i dubbi, il rimorso e la morale del coscienzioso Whitaker non siano estranei all’autore. Ammantato da un onirismo analitico, Mary produce l’effetto della visione compless(iv)a di un quadro, dove i fatti si sviluppano con lo stesso meccanismo dei sogni: non è quindi importante il tempo, bensì come vengono disposte le pennellate e conseguentemente cose esse provocano come reazione. Le reazioni dei personaggi sono i riflessi e gli interrogativi verso i quali siamo spinti: perché la folgorazione di Marie? Cosa la spinge nel suo percorso di ricerca? E di preciso, cosa sta cercando? E anche: quale profonda intuizione è scattata nella mente di Tony? Cosa lo fa avvicinare così a Dio? E soprattutto: il regista Ted crede davvero al suo sfrontato e convulso pragmatismo? O proprio attraverso la sua mondanità vuole demistificare il suo profondo ascendente religioso? 

Sicuramente, per cogliere appieno la ricchezza di quest’ultima opera di Abel Ferrara è necessaria più di una visione. Mai prima d’ora il discorso religioso era stato affrontato e circoscritto con tale ordine da parte del regista. Un distanziamento rispetto alle sensazioni di Blackout e New Rose Hotel, più ciniche e disfatte, compimento di un percorso già iniziato con Il nostro Natale, in cui l’abilità stilistica indiscussa si prodiga per aprire un varco di riflessione teso ad emozionare, con la bellezza e l’efficacia delle immagini, con la bravura delle interpretazioni – la scena all’interno dello studio televisivo dove i tre personaggi si unisono per la prima (e ultima?) volta, nonostante Marie sia presente solo con la voce, racchiude nelle parole e negli sguardi una tensione che difficilmente si dimentica – con il contenuto, non didascalico o pretestuoso. Un’abilità che Abel Ferrara maneggia ogni volta con fulgida accortezza.

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