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Lo sguardo dei maestri: Orson Welles

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È Orson Welles il protagonista dell’ottava edizione del convegno di studi Lo sguardo dei maestri, tenutosi a Udine dal 2 al 4 febbraio. Relatori di diversa formazione e nazionalità si sono confrontati per sviscerare la genialità e la grandezza dell’autore fondatore del cinema moderno, che, a vent’anni dalla morte (celebrati anche alla scorsa edizione del festival di Locarno con una completa retrospettiva), non si è ancora riusciti pienamente ad analizzare, scoprire, assimilare, comprendere. Di fatto, l’assunto che più di tutti è emerso, preponderante, sta nella difficoltà ed enigmaticità di uno studio che possa definirsi pienamente esaustivo, completo, o almeno univocamente condiviso e condivisibile, della dilagante creatività di Welles, ancora oggi, con la grande quantità di materiali a disposizione.

L’appuntamento di Udine è stata l’occasione per determinare lo stato delle cose, fino a che punto sia arrivata la conoscenza – attraverso studi monografici, interviste, critiche, confronti – di Orson Welles, nella sua multiattività mediatica (ma anche umana e personale) e quanto sia ancora vivo l’interesse per quello sguardo che riesce abilmente a mostrare l’acutezza di una visione magica, incombente, intralciante, e la difficoltà ad incanalare tutta la potenza immaginativa che lo stesso produceva. Come dire, un appuntamento che andrebbe periodicamente rinnovato, perché Welles è davvero un maestro in costante divenire, paradossalmente, anche dopo la morte. 

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Per capire appieno l’intensità della creazione wellesiana è necessario considerare il (fare) cinema come mo(vi)mento di un arguto piano sequenza che comprende nella sua temporale e interconnessa sequenzialità, l’opera di autore/attore a tutto tondo, dal teatro (prima), alla radio e alla televisione (poi), scrivendo progetti su progetti, sceneggiature, testi teorici, opere mai realizzate. Un patrimonio sterminato di materiali che ad oggi ancora non si è riusciti completamente a ricomporre. Un innovatore endemico: fu lui a dare la svolta al cinema americano in piena epoca classica con Citizen Kane (Quarto Potere, 1941), poi osteggiato a piene mani dalla stessa industria hollywoodiana che l’aveva dapprima incentivato. Non a caso la Nouvelle Vague (lo dichiara apertamente Francois Truffaut) gli attribuisce da subito il merito che gli spetta, apprezzandone la modernità narrativa, il sapiente, ricercato, funzionale uso del linguaggio cinematografico e l’abilità tecnica. Tutti elementi a dir poco rilevanti per la concezione del cinema che è venuta a delinearsi negli anni, e che tutt’ora fa tesoro di quegli elementi. Ben diverso è invece il giudizio della critica italiana che, salvo come sempre le dovute eccezioni, non si è certo trattenuta nel cassare opere quali The Magnificent Amberson (L’orgoglio degli Amberson, 1942), The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1948), Macbeth (1948). 

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Data l’irrefrenabile curiosità di Welles, unita al profondo desiderio di fuggire dagli Stati Uniti, è interessante vedere i rapporti che ha intrattenuto con i vari paesi che ha, simbolicamente, preso in prestito (Spagna, Francia, Italia). Nel caso dell’Italia si può dire che fosse mosso da una mal celata fantasia di conquista di donne (del resto è quasi impossibile tenere conto di tutti i successi amorosi ottenuti grazie al suo fascino): il Portrait of Gina (Viva Italia) del 1956 – uno dei tanti prodotti per la televisione dei viaggi per il mondo di Welles – è un chiaro omaggio al nostro paese e alla Lollobrigida. Dopo suo arrivo in Italia, Orson Welles dichiara di essere fortemente ed emotivamente legato al paese, di sentirsi libero, e soprattutto di apprezzare molto i generosi finanziamenti per le produzioni cinematografiche. E di natura economica erano spesso gli interessi di Welles, che difficilmente riusciva a realizzare i mille progetti che aveva per la testa e per i quali si batteva facendo in modo, se possibile, che fossero completamente autoprodotti e autogestiti: unico modo per poter ottenere quel controllo totale, assoluto, sulla creazione. In questo contesto si inseriscono le apparizioni in film il più delle volte passati inosservati, firmati da registi semisconosciuti e con soggetti spesso mediocri o irrilevanti, e gli interventi in cui ebbe a  prestare la sua inconfondibile voce di narratore-off in altrettante pellicole.

Per comprendere a fondo fino a che punto si estendesse il dilagare espressivo di Orson Welles è utile/curioso far mente locale sui numerosi titoli di libri a cui Welles ha posto la prefazione: dalla science-fiction, ai romanzi e ai saggi, fino a libri di ricette (e non a caso, del resto, dato l’amore per la cucina). E non vanno dimenticate  le pubblicità televisive come testimonial (su tutta quella per lo Stock 84); e, non ultima per importanza, l’intensa lettura per la radio del Dracula di Bram Stoker Altrettanto singolari sono le dichiarazioni di Welles a proposito del cinema italiano: si dichiarava scettico nei confronti del neorealismo (essendo quanto di più distante dalla sua concezione di cinema), sembrava interessato solo a Vittorio De Sica, in quanto autore-attore-teatrante proprio come lui; inizialmente non apprezzava Rossellini, salvo poi ricredersi parzialmente, detestava Antonioni e gradiva Fellini.

 

Dunque, una valanga di idee in costante produzione e rimescolamento che il gigante/genio cercava di seguire contemporaneamente ma che (inevitabilmente, verrebbe scontato proferire, forse a torto, parlando di Welles) non riusciva a portare a termine, a porre in limite e in conclusione, come se vi fosse un ostacolo più arduo da superare, o una paura inaffrontabile. Questo ha prodotto una serie di sequenze, immagini, tagli, da film che sarebbero stati terminati, forse, un giorno, se ne avesse avuto la possibilità. Il convegno di Udine è stata l’occasione per vedere i girati del Don Quixote purtroppo mai realizzato e una nuova versione rimontata di Journey into Fear (Terrore sul Mar Nero, 1943), film sceneggiato e diretto da Welles, ma che la produzione fece poi sostituire, per la regia, da Norman Foster: più che mai evidente il contrasto e il taglio barocco prettamente wellesian.

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Probabilmente l’espediente migliore per comprendere la produzione artistica di Orson Welles è passare per la vita dello stesso autore. Vita che scorre implacabile come i fotogrammi della pellicola, corpo di quel Cinema che per Welles rappresentava davvero la vetta dell’inseguimento e del raggiungimento di una magia, di un sogno fanciullesco. Sogno che si alimentava proprio di quegli elementi che facevano della vita e del cinema di Welles un corrispettivo inscindibile: la verità e la finzione, l’inganno e la realtà, la parodia, la curiosità, l’oscuro, l’incompiutezza, la decadente sovranità, il falso, il costante e primordiale amore e reverenziale attaccamento per il teatro e Shakespeare (indimenticabile, in proposito, il montaggio delle magistrali interpretazioni dello Shylock del Mercante di Venezia in Orson Welles’ Shylock, 1938-1973). Tutto quello che costituisce, ineguagliabilmente, “the touch of Orson Welles”.

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