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Pitti Immagine Uomo 94: illusione e materialità

L’immagine è la via sulla quale passano in tutti i sensi le modificazioni che si propagano nell’immensità dell’universo.

Henri Bergson

 

In Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò lo scrittore e matematico inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll racconta con una fantasia semiologica di rara efficacia, il richiamo della conoscenza, della meraviglia e della curiosità, attraverso un percorso, quello di Alice nel mondo capovolto, che sembra in definitiva suggerire quanto sia sostanziale non tanto la consapevolezza della destinazione verso cui si andrà incontro, ma piuttosto il valore del viaggio e il senso di incompletezza che ci spinge a cercare quel non si sa cosa, al quale non possiamo rinunciare, pur conoscendo il motivo della nostra ricerca. 

Come novelli Alice, varcata la soglia dei tornelli che delimitano l’accesso ad uno degli eventi più importanti per il mondo della moda mondiale maschile, si viene investiti da un offuscante alito di aspettative, interscambiabili e interdipendenti, tra coloro che presentano o espongono e coloro che osservano e ricercano. Siamo dall’altra parte del dispositivo riflettente: come descrive Carroll, qui ogni aspetto della vita è rigidamente regolato da imposizioni speculari e contrarie a quelle del mondo che conosciamo, tutto è dettato da regole talvolta bizzarre che seguono però una loro logica ben precisa. Una volta imparate le regole, è facile capire anche come muoversi, come “giocare” e magari come uscirne vincitori. Niente è realmente impossibile da affrontare, l’importante è imparare a sfruttare le regole a proprio vantaggio. 

Senza una bussola degli intenti, il percorso tra sale, sezioni stand e padiglioni si presenta a tutti gli effetti come un’apparizione lisergica di immagini in un flusso battente senza soluzione di continuità, in cui il senso di mistero iniziale si fa largo ad una comprensione di un racconto a tratti invitante dettato dalla storia che l’oggetto - ma prima ancora, l’idea -  porta con sé nel suo mostrarsi in vetrina come feticcio illusorio della prodezza creatrice dell’uomo, fino a confluire definitivamente nella vastità di uno spazio indefinibile e uniforme. 

Lo sguardo dell’osservatore dovrebbe essere assorbito dal richiamo del simulacro esposto dai loro creatori, i cui occhi però, così vigili e aberranti, sono ammantanti da una luce carica di speranza venatoria ma allo stesso tempo disincantata. Dentro ad ogni essere umano c’è una storia e dunque dietro all’apparenza materiale di un prodotto ci sono persone e dunque storie. Accogliere questa storia, saperla trasmettere con i necessari richiami all’umiltà e alla passione che rendono uniche le grandi narrazioni,  fanno parte di un sottotesto vivido e molto spesso fagocitato dal riversamento incessante di immagini rappacificanti che rimandano all’immaginario precostituito di un nome famoso, della certezza del marchio rassicurante, dalla scena esibizionista di involucri senza racconti. 

In un’ipotesi avanzata per la prima volta nel 1973 dal biologo statunitense Leigh Van Valen – The Red Queen Effect, dalla regina degli scacchi incontrata da Alice oltre lo specchio – mostra come l’evoluzione sia spesso necessaria  per una specie in presenza di altri organismi che si evolvono a loro volta. Una coevoluzione che tocca anche Alice, alle prese in ogni sua avventura con personaggi sempre più alienanti e macchiettistici.

In tal senso di fronte allo strabordante prolificare di immagini lungo le stanze di Pitti Uomo si ci interroga sulla natura stessa di queste immagini. Nel Rinascimento, e proprio in quello italiano, ci sono teorie come quella di Alberti, che parla dell’immagine come di una finestra aperta: si guarda verso il mondo attraverso l’immagine. È dunque il mio sguardo, che guarda attraverso la finestra. Guardare è di per sé un’operazione complessa di messa in discussione e di creazione. Non si tratta, però, di attribuire effetti alle immagini, bensì di chiedersi come, attraverso un’immagine e a partire da un’immagine, venga esercitato un effetto. Pensiamo alle immagini degli imperatori: inizialmente avevano la funzione non solo di mostrare, ma anche di far percepire il potere, tanto che, quando si passava loro davanti, erano dovuti un inchino o una determinata forma di saluto. In modo simile, i monumenti funerari non hanno la funzione di rappresentare qualcosa in modo puramente estetico, ma di mantenere desta la memoria. Si tratta, in sostanza, di comprendere l’effetto delle immagini, così come, a partire dagli antichi greci, la retorica si occupa dell’effetto dei discorsi. C’è il rischio infine che nell’estetizzazione dell’immagine con la quale si giunge a produrre solo belle forme, gli effetti, anche spiacevoli, delle immagini sembrano svanire, in quanto la funzione di ridestamento e di pungolo, anche di inquietamento, viene annullata.

Nel contesto fiorentino, l’eccesso è definibile come cifra misuratrice dello scarto che intercorre tra il proprio disagio nel riconoscimento di un modello estetico e l’aspettativa inane di non raggiungerlo mai e non renderlo distinguibile. L’illusione sta tutta lì di fronte agli occhi, e il conflitto sgorga di umori ambivalenti: da una parte il soddisfacimento di una possibile vendita si agita come uno spettro inquietante e invisibile, dall’altro l’attestazione di stima, spesso sincera, rappresenta l’affettazione innegabile rivolta più all’ardimento del coraggio che alla sostenuta concretezza del risultato. 

“Dentro l'immagine vedo così riflesso più l'occhio di chi guarda che l'oggetto guardato, annullo le ragioni di rassomiglianza e vedo la finzione che - come suggerisce Foucault - consiste non nel far vedere l'invisibile, ma nel far vedere quanto è invisibile l'invisibilità del visibile” dice Edoardo Bruno in Il Pensiero che muove, ed è proprio nell’esacerbazione epidemica di produzione di immagini - non a caso si chiama Pitti Immagine Uomo - che ad ogni passo e ad ogni angolo vengono cortesemente presentate di fronte agli occhi, che si può alla fine elaborare una tassonomia del desiderio. A partire da esso l’occhio ricerca il proprio soddisfacimento e non c’è strategia comunicativa che tenga di fronte alla forza di quel riflesso prodotto dallo specchio. 

Lo specchio offre la mediazione della soglia e del dubbio, e permette un ragionamento sul lascito che l’esperienza della visione ci ha affidato. La speranza di chiunque percorra quei sentieri tra gli edifici della Fortezza da Basso è perciò sedata, alla chiusura dei battenti, nella consapevolezza del limite che ogni evoluzione porta con sé. Non resta che stare a guardare, come ci suggerisce l’installazione montata al centro del cortile esterno, seduti su un gradino, o su uno spalto, e riflettere quanto di tutto ciò che si è mostrato rifletta veramente noi stessi.

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