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Road to Nowhere

Regia: Monte Helmann 

USA 2010

Il cinema attraversa, riproduce, rielabora e proietta l’apparato psichico umano, i suoi meccanismi pulsionali e i suoi princìpi regolatori. Fin dal principio l’illusione e il sogno, il desiderio e lo scontro e la verifica con la realtà - intesa come funzione delle condizioni imposte dal mondo esterno - si sono dimostrate consequenziali strutture semantiche per raccontare e scollare l’effetto perturbante prodotto dalla visione dello schermo cinematografico. Può anche capitare però, che gli stessi elementi identificanti dell’oggetto e del dispositivo fantasmatico, e dunque gli assi portanti di una valida ipotesi interpretativa, divengano soggetti e, a loro modo, protagonisti della riflessione e rappresentazione filmica. Di conseguenza, l’autore si svela come una presenza fondamentale ed evidente, necessariamente portata ad affermare quel suo punto di vista riflettente e plurivoco, intensamente metacinematografico, ma non per questo disincantato, determinato dalla basilare e incontrovertibile dicotomia delle istanze di piacere e realtà. 

Il noir tra tutti è forse il genere che meglio incarna l’enigma del desiderio, e che meglio si presta a racchiudere la complessità delle derive associate ad esso, come l’ossessione, il possesso, la colpa, la perdita, l’inganno, la ripetizione, in un costante intreccio di scenari e piani narrativi scardinati dal mero procedimento logico dello sviluppo narratologico classico. E in tal senso la monistica avanguardia dell’INLAND EMPIRE lynchiano resta tuttora un riferimento determinante per approcciarsi ad uno sguardo formale esaltante, benché misterioso e inquietante, sull’intreccio prolifico dell’immaginario con l’apparente consapevolezza della vita. 

Osservando questo territorio ardimentoso e scosceso, Monte Hellman, uomo indissolubilmente legato alla materia cinematografica, indipendente per natura (si è formato nella factory di Roger Corman), regista  - suoi alcuni dei western chiave della svolta antiretorica del genere: Le colline blu (1966), La sparatoria (1966); e il road movie esistenziale Strada a doppia corsia (1971) - montaggista per Sam Peckinpah (Killer Elite), Bob Rafelson (Sogni perduti - Head), Jonathan Demme (Fighting Mad) e produttore dell’esordio di Quentin Tarantino (Le Iene), si presenta a settantotto anni con il suo film più personale, labirintico, teso, fervido concentrato d’amore per le immagini e la loro esecuzione. Road to Nowhere prospetta fin dal titolo un percorso incerto, quello del desiderio verso la conquista della sua letale inafferrabilità, e racchiude concettualmente tutto il pensiero di un autore sul destino e il fine ultimo dell'idea con la quale potrà sopravvivere il mezzo cardinale deputato alla creazione dei sogni. Il film racconta del giovane regista Mitchell Haven e della sua ossessione per la realizzazione del suo nuovo capolavoro, un torbido giallo dal tragico finale, tratto da una storia vera, e con al centro una bellissima ragazza e il suo vecchio e potente compagno. Mitchell è innamorato di questa storia e della sua protagonista, Velma Duran. Il suo amore diventa tutt’uno con la sua vita nel momento in cui ingaggia la splendida modella e attrice Laurel Graham per interpretare Velma, con la quale vanta un’incredibile somiglianza, e inizia a girare proprio nello stesso luogo dei reali avvenimenti del suo complicato mistero. 

Road to Nowhere opera uno smembramento del codice di genere, affermando il dominio della purezza di una forma in costante mutamento, volutamente costruita, e percepita come tale, nel suo processo costitutivo. Dunque ci si chiede quale film, e quale trama, stia realmente seguendo lo spettatore, poiché dopo qualche sequenza l’interrogativo diviene l’unica coerente strada percorribile. In questo gioco delle possibili letture però, appare sempre più evidente uno schema non casuale, e abilmente regolato dallo sguardo del suo creatore, in cui tutto è doppio e intercambiabile: Monte Hellman-Mitchell Haven, Velma Duran-Laurel Graham, la storia vera di Velma-il film che si sta girando su quella storia-la storia vera di Laurel. In sostanza si tratta dell’amore sviscerato per l’immortalità del magnifico tormento per l’immagine, e la sua necessaria forza vivifica. E il ritratto con il quale si conclude il film, contemplato da Mitchell, esemplifica appunto l’estasi di questo assunto.

Il potere attrattivo della visione, e l’ossessivo immergersi e perdersi dentro ad essa, rappresentano di fatto la base dalla quale si dipanano le possibili narrazioni di Road to Nowhere. Ma, sebbene con un certo sforzo programmatico sia possibile rilevare i fulcri di questo perfetto meccanismo di compenetrazione di differenti piani del racconto, si dimostra evidente che, in sostanza, proprio il nostro stesso guardare e interrogarci su cosa stiamo fissando, chiarisca quel senso sfuggente del quale abbiamo bisogno per decifrare l’esito della portata figurativa dell’opera di Hellman. Il suo cinema ha il sapore persistente del mistero, il coraggio dell’introspezione e la consistenza dell’avventura: “Road to Nowhere è una collaborazione dell’intero gruppo creativo che è stato invitato ad attingere al suo subconscio. Non sapevamo dove ci avrebbe condotto questa strada, e solo adesso consideriamo il film una celebrazione del potere esercitato dal cinema sulla nostra immaginazione, come pure una verifica dell’elasticità della nostra sospensione volontaria dell’incredulità”. 

Guardare, nel suo formasi e corrompersi, la finzione, e prendere coscienza di quanto essa non sia differente da ciò che crediamo essere reale. Un tema certo non nuovo, ma che nella mani di Hellman diviene un declinarsi nitido, erotico, perfetto di immagini portatrici di un suggestivo valore purificatorio. Del resto, cosa si può ancora inventare e dire di autenticamente nuovo. La differenza sta, come sempre, nella scelta della forma che si determina di utilizzare. E Road to Nowhere è proprio la sintesi del fascino indissolubile esercitato dalla forma verso la sua significazione.

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