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Jiaoyou - Stray Dogs

Regia: Tsai Ming-liang

Taiwan 2013

Forse tutti noi non siamo altro che cani randagi. E i cani randagi dell’ultimo - e pare, dolentemente definitivo - film di Tsai Ming-liang, quei corpi vagabondi, avulsi e dolorosamente stratificati, sono posti lì davanti a noi proprio per rimarcare, nella loro spirituale essenzialità taoista, la nostra comune intrinseca inconsistenza di fronte all’universo. Ed è da ricercare proprio nel costante confronto estetico con la realtà che ci circonda, che per il regista trapiantato a Taiwan si rivela a tutti gli effetti come una esplorazione gnoseologica, il canto del cigno dell’intera architettura funzionale del cinema. Tale è lo sviluppo di un sistema di intrattenimento, oramai, pur su diversi livelli, consolidato per compiacere, ricreare e guidare l’ideologia del desiderio, che l’intransigente libertà espressiva del film di Tsai Ming-liang finisce confinata come memoriale della resistenza al consumo compulsivo di storie. Sì perché Stray dogs non sviluppa una trama: niente inizio, sviluppo, fine. Quindi, abbandonando la narrazione, cosa resta? Cosa possediamo? Siamo sicuri di (non) possedere qualcosa? 

I protagonisti silenti del film, un padre con i suoi due figlioli, vagano in una Taipei folle e divorata dal consumismo, una sorta di discarica che fagocita e mastica l’esistenza, alla ricerca di una possibile Arca di Noè che permetta loro di sopravvivere. Lui (come sempre interpretato da Lee Kang-sheng) per guadagnare da vivere trascorre il giorno sorreggendo e indossando cartelloni pubblicitari di appartamenti di lusso con ridicoli nomi di località esotiche, mentre i figli cercano qualche forma di svago e piacere con i servizi (aria condizionata, bagni, giochi, cibo gratis…) offerti nei centri commerciali. Di notte dormono abbracciati sullo stesso materasso dentro qualche baracca sprovvista di luce e acqua. Ad un certo punto una donna (interpretata da tre volti cari al regista) si unisce alla famiglia. 

Questi personaggi si compiono nel loro evidente (per)(e)sistere, nella quotidiana dilatazione dei loro gesti, e infine in una riappropriazione di un’integrazione con lo spazio che li circonda. Per Ming-liang questi divengono gli elementi costitutivi della trama, e non semplici mezzi per lo svolgersi di un componimento. Il tempo necessita così di essere cristallizzato dall’ansia dell’accadere, riacquisendo un valore empatico e primordiale, nel quale dentro a un apparente immobilismo sgorghi dirompente e tragica la vita. Avvicinandosi al sentimento scaturito dal compiersi del tempo vediamo trascendere l’impulso dell’interrogazione dell’attesa: trasalgono i fantasmi, e la condivisione di una perdita, il silenzio fecondo di un abbraccio, o l’inghiottire possessivo e viscerale di una verza, finalizzano una partitura proiettiva debordante. 

Ogni elemento costitutivo della messa in quadro rappresenta esso stesso un personaggio, attivo e in dialogo con gli altri personaggi: lo sono le rovine, le case abbandonate, le strade affollate, la spiaggia, il bosco, il supermercato; e la desolazione è il sentimento che li unisce sempre. Lo sono gli elementi naturali: l’acqua, sotto forma di pioggia, stagno, lacrime, urina. Lo è il cibo: il pollo, la verza, il riso, i quali possono reagire a contatto con la bocca in un rapporto voluttuoso o orrorifico. Lo è infine il rumore senza filtri, e il paesaggio del murale nella casa fatiscente, riverbero risolutivo di uno straziante ideale. 

La straordinaria e immutabile ricchezza dell’arte di Tsai è la potenza del sensibile, del tattile, che nel suo cinema si rende esperienza vivida e vivente senza l’ausilio dell’effetto speciale. È l’uomo stesso, nella sua abulica limitatezza e insieme misteriosa capacità adattiva a imporsi come visione speciale, a elicitare una profonda coscienza emotiva infinitamente declinabile. Non è necessario riflettere, ma abbandonarsi al rapimento delle immagini, al loro svelamento attraverso il desiderio inquieto celato negli occhi di chi le osserva. Come fosse uno specchio, lo schermo elabora e articola un fuori campo interiore dello spettatore, che attivamente plasma il processo creativo a cui è sottoposto, fino a rievocare un’esperienza vissuta. 

E se dunque, come sostiene Zizek, tutti i film moderni sono in definitiva film sulla possibilità o l’impossibilità di fare un film, Ming-linag con l’ultima ardita, sublime eppure limitata inquadratura conclusiva, svuota ogni eccedere della speranza per congedarsi nella metafisica della sospensione e dell’abbandono. 

Come cani randagi gli occhi continueranno a vagare tra ammassi di immagini duplicate e consunte, ma il tempo questa volta sarà perduto in un abisso perverso e raggelante nel quale le pupille non incontreranno più l’oggetto del loro godimento.

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