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Sügisball

Regia: Veiko Õunpuu

Estonia 2007

E’ un premio meritato e importante quello vinto da Sugisball (Autumn Ball) come miglior film della sezione Venezia Orizzonti. Significativo e importante per dare visibilità internazionale a una cinematografia decisamente sconosciuta come quella estone, la quale, grazie a questo esordio nel lungometraggio del giovane regista Veiko Ounpuu, viene instillata di fertile e curioso nutrimento, facendosi specchio di certe isolate realtà ai margini dei domini visivi di Russia, Germania, Polonia.

Ovviamente, siamo di fronte ad atmosfere con un carico e una valenza emozionale siderale rispetto alla dimensione dei rapporti interpersonali approssimativi verso cui tende sempre più la produzione cine-televisiva aggregante e compagnona italiana (e ne sono un balenante riferimento L’ora di punta di Vincenzo Marra o Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati presenti in concorso). Perciò, quest’opera intimamente malinconica, raschia fino alla profondità delle viscere, fino alla radice dei bisogni degli esseri umani, fino alla vergogna della loro imperfezione, al riconoscimento delle loro carenze, alla voragine della loro solitudine, alla nudità che scopre l’inspiegabile e imperterrita ricerca di ogni barlume di sentimento che faccia sentire la loro presenza. Sentimenti ingestibili, opprimenti, grigi e squadrati come il paesaggio di cui si nutrono. 

Sei persone qualunque, residenti in un’enorme periferia di prefabbricati costruita al tempo dell’Unione Sovietica. Sei personaggi portatori di un isolamento e un vuoto (Vuoto è non a caso il titolo del primo cortometraggio di Veiko Ounpuu) incolmabile e inesorabile, racchiuso tra le spesse fondamenta di cemento dei palazzoni ruvidi e gelidi dentro cui si consumano le loro vite. E’ un fallimento che non possono combattere, contro cui ogni sorta di sforzo, di avvicinamento, di contatto, di dialogo, risulta vano e frustrante. Rimane solo lo sfinimento dell’esistenza, la delusione, la rassegnazione di sedersi su una sedia di plastica posta davanti a un muro grigio e spoglio come il cielo, con gli occhi chiusi che rimandano ogni speranza alla sovrastante locandina di Love streams di John Cassavetes.

 

Ma c’è anche un’apertura - non propriamente vitale ma pur sempre una spinta risolutiva liberatoria – offerta dallo sguardo di uno dei protagonisti verso il vuoto della visuale del suo balcone. E c’è una fondamentale e costante ironia, che permette di eliminare l’autocommiserazione e la lacrima. Perché è certo vera e innegabile l’insita drammaticità della visione di questa realtà fondata su un costante sentimento di indefinibile perdita interiore. Così come è evidente che non c’è disperazione ma un senso critico di ricerca di una verità inafferrabile, costantemente interrogata dai dubbi dell’esistenza. E’ possibile vivere una vita completamente priva di amore? E’ possibile credere ancora con fiducia nella felicità condivisa? “Le strette relazioni umane e le nostre aspettative a riguardo sono la causa principale della nostra sofferenza”.

E nel laconico ballo autunnale delle solitudini dei suoi personaggi, l’autore sembra davvero aver trovato un percorso per suggerirci la densa sostanza di cui è composta la vita. Una sostanza a cui troppo spesso cerchiamo miseramente di sfuggire.

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