Torino Film Festival 27
La ventisettesima edizione del Torino Film festival segna il cambio del vertice direttivo in seguito all’abbandono di conduzione da parte di Nanni Moretti. Al suo posto un altro cineasta fulcro di quel cinema italiano sempre più infrequente, e dunque pregiato, capace di unire nella messa in scena un’istanza autoriale elaborata e ricodificata attraverso l’assoluta forza passionale della visione accanita e accanitamente diretta del desiderio cinematografico.
Fin da subito infatti Gianni Amelio, ponendo l’accento proprio sulla passione, identifica il carattere immanentemente incontrovertibile del festival torinese e un’assoluta linearità di intenti: “la differenza tra dirigere un film e dirigere un festival è solo tecnica: in un modo o nell’altro si fa cinema”. Ed è appunto il fare cinema a riassumere lo stimolo inferto dalle numerose proposte contenute nelle se(le)zioni della rassegna del capoluogo subalpino, e allo stesso tempo probabilmente il vero sentore interpretativo ideale per affrontare lo slancio di rinnovamento ingenito nelle opere prime o seconde, così come nelle commistioni mediali insiste in molte creazioni di nomi fino a prima sconosciuti o, infine, in una sorta di reflusso visionario del già visto (o vedibile) e per questo ancor più invisibile, la riproposizione perturbante di ogni frammento dell’arte avanguardista di autentici maestri (Nagisa Oshima e Nicholas Ray).
Una proposta di titoli, autori, generi, sperimentazioni, retrospettive (tra cui una mini personale del giovane - classe 1970 - e già cult, cineasta danese Nicolas Winding Refn) in grado di rappresentare e palesare il movimento impreciso e ineludibile dell’immaginazione del filmabile, dov’è evidente ancora una volta l’opera alacre del sogno come rimedio inclito e munifico all’incedere mortifero della vita.
Di certo, a conti fatti, ogni scelta operata dallo spettatore nel programma di Torino 27 apre a un approfondimento e a una mancanza, generando in questo modo appunto quel conflitto tipico della produzione filmica. Il risultato è un insieme unico e relativo, che in questo caso, si può qui tradurre in identificazioni di riferimento verso i quali è senza dubbio doveroso riempire uno spazio e aprire il ricordo. In questa personale organizzazione della materia, ciò che più traspare e si manifesta, in una sorta di esigenza formale, è di sicuro la sperimentazione di genere, e la proiezione dei generi al di là della conscia e dichiarata assunzione e assimilazione da parte del soggetto di un modello denotativo univoco e comprensivo.