Torino Film Festival 27 : Concorso
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In quest’ottica, all’interno del Concorso, è possibile legare tra loro opere geograficamente, moralmente, esteticamente, lontane, opposte e culturalmente distinte, attraverso la faglia abulica e straziante secreta dai rimorsi della solitudine.
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Torso, esordio alla regia di Yutaka Yamazaki - il settantenne direttore della fotografia di Hirokazu Kore-eda da After Life (1998) in poi - pone il centro della narrazione all’interno della vita di Hiroko, una vita ordinaria e regolare, divisa tra la casa e il lavoro, ma con un segreto di cui nessuno è al corrente: vive in compagnia di un busto maschile gonfiabile che tratta come un vero e proprio fidanzato.
“Ho avuto l’idea per Torso circa trentacinque anni fa, quando ho visto un busto maschile in un pornoshop a Copenhagen, che non aveva volto, braccia o gambe, ma solamente un fallo di lattice. Mi sono chiesto allora se un busto potrebbe essere la parte essenziale che una donna possa desiderare di un uomo, e ho iniziato a pensare che un giorno mi sarebbe piaciuto girare un film su una donna che si innamora di un busto e non di un vero uomo”. Torso è un film intimo e trattenuto, in cui i sentimenti misantropici della protagonista non costituiscono il fulcro del dramma, ma arrivano a rappresentare, in una prospettiva assai differente, la necessità di amare, e la capacità di trovare un equilibrio lontano dalle regole e dalle modalità precostituite dalla società. Per comunicare questo Yamazaki non formula alcun derivato estetico dell’immobilità, o della lontananza, o dell’emarginazione, ma conferisce una sensibile morbidezza a un mondo limitato e privo i trasmissioni umane.
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E di una stessa alienante perdita di comunicazione tratta Adas (Transmission) dell’ungherese Roland Vranik. Quando tutti gli schermi della città improvvisamente smettono di funzionare, un senso di vuoto irrompe nelle abitazioni, dove le persone rimangono a fissare gli schermi bui. “In che modo questo singolare e spaventoso avvenimento colpisce l’individuo? Di quali tecnologie abbiamo bisogno per sopravvivere? Sono in grado di capire cosa sta succedendo loro?”. L’interrogativo è proprio il meccanismo cardinale al quale fa riferimento il film di Vranik. I personaggi appaiono svuotati di ogni personalità, muti e indolenti, simili a zombie in cerca di un contatto letale con forme di vita (apparente), e riverberi essi stessi della riproduzione finzionale dello spettacolo che governa le loro esistenze. Anche la scenografia non media alcuna tangibile realtà, e anzi accentua la disper(s)(az)ione della dimensione gruppale in cui si ritrovano coinvolti inevitabilmente gli individui. La cittadina che dà sul mare infatti, segue linee architettoniche e formali spigolose e minimaliste, sembra assiderata nella fissità di un riquadro fotografico, e la profondità di campo è quasi sempre affidata a tonalità univoche e polarizzate che in qualche modo rimandano a un certo astrattismo monocromatico. Non c’è né speranza né rimedio a questa solitudine della quale l’uomo stesso ne è l’artefice.
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Di tutt’altro genere e vigore Guy and Madeline on a park bench, esordio nel lungometraggio del giovane batterista jazz (classe 1985) Damien Chazelle. Ed è proprio l’attitudine al jazz e all’improvvisazione a caratterizzare questo film dal ritmo sincopato e dal sapore vintage: “ Volevo fare un film su persone che sanno comunicare solo attraverso la musica. Ho cercato di trattare il film come fosse un documentario, e secondo me non è poi così lontano da quello che sono i musical, sicuramente artificiosi ma molto attenti nel documentare una performance musicale”.
Storie d’amore tra Boston e New York, in cui la solitudine emerge mestamente dalla moltitudine della folla e dall’imprevedibilità dei sentimenti e della passione, il film è un chiaro omaggio alla libertà dello stile espressivo di John Cassavetes, rivisto e innestato all’interno di una tradizione musical(e), anch’essa sottoposta ad una revisione indipendente e istintiva. Quasi scontato, ma non per questo privo del suo fascino, il bianco e nero polveroso e impreciso ottenuto a partire dal girato in video. I primi piani dei protagonisti rivelano così un’aderenza naturalistica degli stati d’animo senza la necessità di parole. E’ come se, per Chazelle, il verbo fosse il suono.
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Esordio alla regia di un lungometraggio di finzione anche quello di Rune Denstad Langlo con Nord, film di produzione e ambientazione norvegese, giustamente definito dall’autore “an antidepressive off-road movie”. E la storia è in effetti quella di un viaggio verso l’estremo nord del paese, condotto attraverso distese infinite di neve con motoslitta e sci dal protagonista depresso che scopre di avere un figlio.
L’assoluta qualità di Nord è l’ironia con la quale gestisce il dramma che, di fatto, si stempera in toni da commedia senza però perdere mai di spessore, e anzi, acquisendo una personale tonalità umanistica. In Nord, la natura stessa è la raffigurazione della solitudine, artefice dell’isolamento in cui sono immersi tutti i personaggi, i quali a causa delle condizioni ambientali si ritrovano impossibilitati, e disabituati, a intrattenere forme di contatto umano. Il percorso del protagonista è la forzatura di quest’obbligo naturale, e la scelta ardita che porterà alla scoperta e al cambiamento. La regia di Langlo è finemente leggera, abile prima di tutto a dosare gli elementi formali e moderare la carica recitativa. Procede per contrasti, diegetici (sensoriali: temperatura, vista, tatto; emotivi) ed extradiegetici (musica country) e, a sancire la sobrietà della scrittura della sceneggiatura, un finale perfetto senza alcuna pedante e ridondante facondia.
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Solitudine assassina, della sopravvivenza e della disperazione nella vicenda, realmente accaduta, narrata in Van Diemen’s land dell’australiano Janathan Auf Der Heide, film cupo, inquietante e dai risvolti horror, ambientato nel 1822, nella terra corrispondente all’attuale Tasmania, colonia penale britannica, dove otto prigionieri riescono a sfuggire al controllo delle guardie e si ritrovano immersi in una natura sconosciuta e inesplorata. Un film tutto sommato meccanico e privo di una qualche originalità se non per l’interesse primordiale verso la violenza, quella violenza connaturata nell’essere umano, come reazione al pericolo della morte.
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Dal Canada il lungometraggio d’esordio di Sherry White, Crackie, storia di sgretolamenti emotivi di tre generazioni di donne, nonna-madre-figlia, e i rapporti che (non) le legano: “alla nascita siamo tutti legati alle nostre madri. Per molti di noi, questo legame continua a esistere fino a quando non raggiungiamo l’indipendenza. Ma per altri bambini il legame è reciso troppo presto. Bruscamente. E il bambino continua a cercarlo per anni. Alcune persone giungono alla conclusione che se non riesci a trovare una madre puoi sempre essere una madre. Ma, non puoi essere davvero una madre fino a quando non smetti di essere un bambino”.
La White ha una sensibilità indipendente e non si preoccupa mai di esprimere dettagli morali per riuscire a compensare l’assoluto sconforto del destino riservato ai suoi personaggi. La regia diviene l’attuazione di un processo mimetico totalizzante verso la definizione di un realismo senza aberrazioni estetiche di patina o ti cronaca: lo svolgersi interpretativo della recitazione rimane sempre il centro della visione, assecondato perentoriamente nei tempi, nelle reazioni, nell’inammissibilità di una qualche ragione, e l’incedere del dramma non offre alcuna pausa di modulazione, quasi ad azzerare i limiti e i doveri della costruzione narrativa e offrire un frammento di vita puro e violento, all’interno di un percorso di formazione di cui si può solamente cercare di intuire uno dei possibili esiti. Film interamente declinato al femminile, ma non per questo riconducibile a tonalità pastello o intensità smorzate, e anzi dall’audacia descrittiva e dalla sensibile spudoratezza assai difficilmente rintracciabili in gran parte del cinema presente comunemente nelle sale.
Crackie è il termine utilizzato per indicare il bastardino a cui si lega ossessivamente la giovane protagonista. Elemento alterante, in grado di far emergere ancor di più gli equilibri corrotti nelle relazioni umane, figlio dell’ambiente malsano e degradato che l’ha partorito, e destinato alla tragica follia condotta dall’incomunicabilità emotiva di cui si circonda un’umanità ai limiti del collasso.