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Torino Film Festival 32

Uno specchio frantumato che imprigiona al suo interno un uomo e la sua macchina fotografica nel momento dello scatto. Questo prezioso autoritratto in fotografia del 1975, donato da Jerry Schatzberg al Torino Film Festival, è stata l’immagine simbolo nonché il manifesto della trentaduesima edizione dell’appassionata rassegna torinese dedicata al cinema. Un’immagine che dichiara apertamente il proprio intento dissacratorio e l’impervia via nella quale è costretto a destreggiarsi lo scorrere della visione negli innumerevoli percorsi plausibili della ricchissima selezione festivaliera. Poiché mantenendo la consueta struttura a cui ci ha abituato il festival dal 2007, da quando cioè si è insediata al timore di comando la neodirettrice Emanuela Martini, prima coadiuvata da Nanni Moretti, Gianni Amelio e Paolo Virzì (presente quest’anno come Guest Director), ogni proiezione, più o meno causale e programmata rappresenta una scelta e una scoperta e l’apertura di un mondo spesso sideralmente opposto al precedente. 

 

La natura cinefila e lo stuzzicante gusto critico sono stati dunque ribaditi al TFF32 e l’immagine di copertina con Jerry Schatzberg è posta lì a ricordarcelo. Schatzberg, fotografo e film maker, presente in giuria a Torino nel 2011, è uno dei protagonisti della New Hollywood, celebrata dal festival nella retrospettiva iniziata nel 2013 e conclusa in questa edizione. Una rassegna fondamentale per indagare lo sviluppo di quella stagione di “ribaltamento che investì il cinema americano nel suo complesso dalla seconda metà degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta, prolungando i propri influssi sullo stile, i temi, lo Star System, le innovazioni della produzione hollywoodiana successiva. Conseguenza della profonda crisi che aveva colpito dalla metà degli anni Cinquanta l’industria cinematografica americana, generata dalla concorrenza della televisione e dall’incapacità degli Studios di tenere il passo con il terremoto culturale che stava scuotendo gli Stati Uniti, quella che fu poi definita «New Hollywood» fu la risposta spontanea di una generazione di nuovi cineasti alle richieste, le tensioni, le sollecitazioni di un pubblico che era radicalmente cambiato.” In questa edizione, oltre ad alcuni esemplari di revisione dei generi, come per l’appunto Il laureato (1967) di Mike Nichols, i western La ballata di Cable Hogue (1970) di Sam Peckinpah, Ucciderò Willie Kid (1969) di Abraham Polonsky, Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, Fango sudore e polvere da sparo (1972) di Dick Richards, i noir del misconosciuto John Flynn, Organizzazione crimini (1973) e Rolling Thunder (1977), il war movie a basso costo Vittorie perdute (1978) di Ted Post, il musical horror Il fantasma del palcoscenico (1974) di Brian De Palma o il fantascientifico Fase IV: distruzione Terra (1974) di Saul Bass, l’accento è puntato soprattutto sugli anni Settanta, quando l’interminabile prolungarsi della guerra del Vietnam e lo scandalo Watergate gettano il Paese e il suo cinema in un clima di paranoia e insicurezza crescenti: tutti spiano tutti, come in Una squillo per l’ispettore Klute (1971) di Alan J. Pakula, Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? (1971) di Ulu Grosbard, La conversazione (1974) di Francis Ford Coppola, I tre giorni del Condor di Sydney Pollack (1975); i giovani sono inariditi, come in Conoscenza carnale (1971) di Mike Nichols, disastrati, come in Panico a Needle Park (1971) di Jerry Schatzberg, sradicati, come in Welcome to L.A. (1976) di Alan Rudolph, arrabbiati, come in La corsa di Jericho (1979) di Michael Mann; i loro genitori fuori di testa, come nella commedia Taking Off (1971) di Miloš Forman; gli anziani a pezzi, come Jack Lemmon in Salvate la tigre (1973) di John G. Avildsen, o imprevedibili come Art Carney in Harry e Tonto (1974) di Paul Mazursky e in L’occhio privato (1977) di Robert Benton, o pazzi eccentrici, come Jason Robards in Una volta ho incontrato un miliardario (1980) di Jonathan Demme. Tra reduci di Berkeley (Richard Dreyfuss in Moses Wine Detective, 1978, di Jeremy Paul Kagan) o di altre università (come i sette amici di Return of the Secaucus Seven, 1979, di John Sayles, o del Grande freddo, 1983, di Lawrence Kasdan) e reduci della «sporca guerra» (come Nick Nolte in Guerrieri dell’inferno, 1978, di Karel Reisz, e David Carradine nel suo film Americana, 1981), l’incubo cresce e matura nei primi film di Steven Spielberg (Duel, 1971, Sugarland Express, 1974, Lo squalo, 1975). E Martin Scorsese sigla malinconicamente la fine di un’era con L’ultimo valzer (1978), l’ultimo concerto di The Band, cui parteciparono tutte le rock star dell’epoca. 

 

Tra le traiettorie più vivamente tangibili e propaganti, nel segno di quelli che Emanuela Martini descrive come “guilty pleasures” - i generi molto amati grazie ai quali abbandonarci al gusto più istintivo della visione, un piacere che spetta di diritto sia a critici e addetti ai lavori che agli spettatori -, l’horror, nelle sue più diverse declinazioni, ha di certo rappresentato una costante all’interno delle diverse sezioni e un serbatoio di definizione della contemporaneità, che condensa, nelle immagini in movimento, tendenze, stereotipi, fobie che da sempre definiscono lo scorrere del tempo. 

Ecco dunque un horror britannico nel quale un archivista cinematografico si trova a ripercorrere le maledizioni suggeritegli dai «fantasmi» di un vecchio film (The Canal di Ivan Kavanagh) e un delirante, irresistibile omaggio al giallo all’italiana (The Editor) costruito dai canadesi Matthew Kennedy e Adam Brooks intorno al mondo delle produzioni di serie Z; un angosciante viaggio negli incubi che perseguitano gli adolescenti americani (It Follows), firmato da David Robert Mitchell (che aveva diretto nel 2010 The Myth of the American Sleepover), e una minacciosa storia di invasione e seduzione, The Guest, con la quale Adam Wingard si cimenta in suggestioni orrifiche sotterranee e inquietanti; un thriller «proletario» lettone nel quale un operaio assassino viene sedotto dalle comodità quotidiane della casa del padrone (The Man in the Orange Jacket di Aik Karapetian), e una sentimental comedy con zombie (Life After Beth di Jeff Baena) che ricorda Joe Dante. 

Tra le eccentricità che si distaccano dai generi, L’enlèvement de Michel Houellebecq, esilarante docufiction nel quale Guillaume Nicloux ricostruisce il presunto rapimento di cui fu vittima Houellebecq nel 2011; Stella cadente, bizzarra messa in scena in chiave surreal-kitsch dell’avventura di Amedeo di Savoia, che nel 1870 divenne re di Spagna, firmata da Lluís Miñarro; e Tokyo Tribe, la nuova travolgente epopea di Sion Sono, tra musical, yakuza e hip-hop, tratta dal celebre manga omonimo, dove a Tokyo si scatena una devastante guerra tra bande. 

Imperdibile poi l’omaggio al genere offerto dalla mini retrospettiva completa dei quattro film fin qui diretti scritti e prodotti dal giovane Jim Mickle, nome non troppo conosciuto ed esponente di una rinnovata visione artigianale e non troppo convenzionale dell’horror, di sicuro firma in grado di  imporre la propria riconoscibilità e il proprio valore in un mercato saturo ma spesso inconsistente.
“Basta vedere l’esordio, Mulberry St. (2006), che rielabora il catastrofismo con stile spiccio e sporco, e soprattutto con uno sguardo al malessere sociale che pare ricordare l’Abel Ferrara degli inizi. Stake Land (2010) affronta scenari simili, ma si allarga a inquadrare la postapocalisse con radici che affondano nell’immaginario kinghiano. È il terzo film, We Are What We Are (2013), a evidenziare definitivamente la singolarità del regista. Mickle osa ciò che non si dovrebbe osare (il tempo e la storia del cinema ne sono prova, sebbene con le eccezioni del caso): fare il remake di un’opera «straniera» che ha ricevuto plausi nel circuito dei festival, e per giunta a distanza di soli tre anni! La fortuna e il clamore mediatico dell’originale messicano Somos lo que hay (2010) di Jorge Michel Grau cominciano alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes: da lì in poi, è un crescendo. Il rifacimento di Mickle non è però ciò che ci si aspetterebbe da Hollywood: un horror sociologico diventa così un gotico familiare plumbeo e molto lontano dagli stereotipi odierni del genere, anche per ritmo e dinamiche. La Quinzaine porta ancora fortuna, perché è lì che Cold in July (2014), dopo la prima al Sundance, riceve ovazioni a scena aperta. Non più un horror, stavolta, ma un thriller tratto dallo scrittore cult Joe R. Lansdale, che ha tutte le carte in regola per diventare altrettanto cult. Merito senza dubbio della presenza fra gli interpreti di Sam Shepard e Don Johnson (che affiancano il Dexter Michael C. Hall), ma merito anche di Mickle, che guarda al pop e al vintage con stile consapevole eppure irresistibile.”

 

Nonostante i tagli ingenti che ha dovuto subire, e dunque meno sale e meno repliche, Il TFF è stato supporto da un pubblico sempre numerosissimo segno di una curiosità e della necessità di cinema di qualità e meno appianato su criteri di gusto predigeriti. Così, tra la solida e inscalfibile piacevolezza della commedia alleniana di Magic in the Moonlight, i deliri dispotico compulsivi a ritmo di jazz di Whiplash del talentuoso Damien Chazelle (a Torino nel 2009 con Guy and Madeleine on a Park Bench), si è potuto ripercorrere i più importanti festival internazionali con una selezione di titoli quasi sempre imperdibili: Jauja di Lisandro Alonso, La chambre bleue di Mathieu Amalric (da un testo claustrofobico di Simenon), P’tit Quinquin di Bruno Dumont (miniserie per la tv), il western The Homesman di e con Tommy Lee Jones, il mélo The Disappearance of Eleanor Rigby di Ned Benson (ma nella imprescindibile versione integrale composta dai due film Him e Her), il recente e doloroso passato di guerra in Irlanda con ’71 di Yann Demange.

 

Ma TFF è anche sinonimo di ricerca sul documentario. A ben vedere percorrere questa forma, attraversarla, contaminarla, sporcarla e sfumarla nella definizione ha prodotto oggetti verso i quali sarebbe doveroso produrre accorte riflessioni. Ne sono esempio il sorprendente esordio alla regia dell’attrice e autrice teatrale Eleonora Danco con N-capace, le ventiquattro ore nell’immaginaria e soprattuto immaginifica vita di Nick Cave in 20.000 Days On Earth del duo inglese Iain Forsyth e Jane Pollard, le contraddizioni dell’american way of life attraverso gli occhi di un maturo biker reduce dal Vietnam di Stray Dog di Debra Granik (vincitrice del Festival nel 2010 con Un gelido inverno) e soprattutto le vette raggiunte da Lav Diaz con l’ipnotico Storm Children, Book 1 - girato nelle terre devastate dal tifone Yolanda nelle Filippine nel 2013, con i bambini sopravvissuti alla ricerca di non si sa quale futuro - e da Daniel Hui con Snakeskin, di sicuro una delle sorprese indelebili di questo festival. Un nome praticamente semisconosciuto quello di Hui, nato e operativo a Singapore, con il suo documentario si immerge proprio nelle pieghe della storia della sua città stato, ripercorrendone alcune tappe fondamentali a partire dalla voce di un unico sopravvissuto di una misteriosa setta religiosa di un ipotetico 2066. Un film in cui la dimensione del racconto quotidiano, intimo, si apre all’intero sistema costitutivo del paese stesso; un film di parole, racconti, suggestioni, in cui la memoria e i suoi vividi fantasmi ardono costantemente in un falò che illumina la messa in scena così come il cinema illumina la vita. 

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