The Look of Silence
Regia: Joshua Oppenheimer
Danimarca/Finl/Indonesia/Norv/UK 2014
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Attraverso il lavoro di Joshua Oppenheimer, che ha filmato i responsabili del genocidio indonesiano, una famiglia di superstiti viene a sapere che è stato assassinato il figlio e scopre l’identità degli uomini che l’hanno ucciso. Gli assassini vivono in fondo alla strada e sono al potere fin dal genocidio. Il figlio minore della famiglia, un optometrista, cerca di elaborare il passato e chiede come potrà educare i suoi figli in una società in cui i sopravvissuti sono costretti al silenzio: tutti sono talmente terrorizzati da trattare gli assassini come eroi. In cerca di risposte, l’uomo decide di affrontare gli nomi che hanno ucciso suo fratello. I responsabili detengono ancora il potere, affrontarli è pericoloso. Gli assassini reagiscono con paura, rabbia e minacce, ma l’uomo si comporta con dignità, ponendo domande crude su come gli assassini vedano i loro atti, su come facciano a vivere accanto alle vittime e cosa credono queste di loro. The look of silence compie qualcosa che non ha precedenti nella storia del cinema e nei luoghi colpiti dal genocidio: documenta il confronto fra i superstiti e gli assassini dei loro parenti in mancanza di un processo di verità e riconciliazione, mentre i responsabili restano al potere.
Joshua Oppenheimer è un documentarista statunitense, trasferitosi a vivere a Copenaghen, che lavora da più di dieci anni in Indonesia con milizie, squadroni della morte e le loro vittime per indagare il rapporto fra violenza politica e immaginario pubblico. Il frutto del suo straordinario lavoro di ricerca, ma soprattutto, di interlocuzione e di azione dello sguardo della macchina da presa con la verità che essa produce nel momento in cui interviene nel racconto di quanto le si presta dinanzi, lo si è potuto vedere nel devastante capolavoro The act of killing, del quale The look of silence è il prosieguo, o meglio, il legittimo controcampo. L’atto di uccidere era il racconto dei carnefici responsabili dei massacri in seguito al colpo di stato da parte dei regime militare di Suharto nel 1965, mentre Lo sguardo del silenzio produce un’elaborazione del vuoto generato dalla morte nei familiari delle vittime.
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Le parole di fronte e attorno al lavoro di Oppenheimer finiscono per essere un ricamo colpevole di indurre uno spostamento del significato dell’intera operazione del regista, la quale si basa sul vedere e il sentire. Sguardo e silenzio appunto, nei quali sono ingabbiate le emozioni più represse, ammutolite dal terrore e dal sangue, e dentro i quali definire fermamente una parvenza di senso. Tale e tanta è la portata della forza delle immagini di Oppenheimer che è difficile rintracciare similarità nel cinema documentario. Werner Herzog e Errol Morris risultano come produttori esecutivi nella lunga lista di produttori e co-produttori e soprattutto membri di un gruppo di lavoro costretto a rimanere anonimo per ragioni di sicurezza, e sembrano stare lì a dire a indicarci, ancora più a chiare lettere, quanto sia smisurato lo sguardo della macchina da presa del regista texano. Perché è proprio grazie al suo atto di vedere che viene prodotta, letteralmente, come una scrittura in movimento che prende vita grazie alla magia o al mistero celati dietro l’obiettivo del cinema, la memoria, che dunque può essere anche trasmessa, e senza la quale tutto finirebbe per essere dimenticato, assecondando l’aspirazione dell’assoggettamento totalitario e degli stati che l’hanno tacitamente appoggiato. “Scordiamo il passato. Andiamo d'accordo come ci ha insegnato la dittatura militare. Così va la vita su questa terra“, dice l’assassino con l’incedere melenso della voce annoiata di chi non ha nulla di cui colpevolizzarsi.
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E’ fin troppo chiaro associare la professione di ottico del protagonista e la soggettiva della “messa a fuoco” con cui si apre il film, all’operazione filmica stessa: gli occhi di Oppenheimer così come quelli del figlio prima, e dei parenti poi, e, da ultimi, quelli dello spettatore, cercano di compiere un adeguamento della vista alla realtà; cercano una forma di perdono, una comprensione, una giustificazione. Ma non la possono trovare, non ne può esistere una, perché nessuno dei carnefici chiede di essere perdonato e il pentimento è un sentimento a loro del tutto sconosciuto. “Forse il film è un monumento al silenzio, e serve a ricordarci che anche se desideriamo passare oltre, distogliere lo sguardo, pensare ad altro, nulla potrà rimettere insieme quel che è stato distrutto. Nulla potrà risvegliare i morti. Dobbiamo fermarci, riconoscere le vite spezzate e sforzarci di ascoltare il silenzio che segue”.