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58. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

Si apre la Mostra con il tripudio dell'immagine e dell'autorialità imbolsita del cineasta macedone Milcho Manchevski, arrivato "finalmente" a Hollywwod, dopo il leone d'oro del '94 del (Prima della Pioggia).

Alla conclusione delle oltre due ore di Dust rimane solamente il poco efficace intreccio di una storia che alterna il presente newyorkese e il passato della Macedonia (d'inizio secolo sotto il dominio ottomano) in modo fastidioso, tra momenti di inattesa ironia e slanci di tragica violenza, ricorrendo al banale espediente di una vecchia in punto di morte che racconta la "sua" storia ad un malcapitato ladro. Intriso di stucchevoli critiche al modello americano (non se ne può più del cinico sistema sanitario americano o della polizia corrotta!) il film è cosparso di confusione e sangue (il gioco è un continuo invertire i ruoli buoni/cattivi), lasciando l'amaro in bocca ai cultori del western (di Peckinpah in particolare, citato a piene mani). in Dust non c'è certo il pathos de Il mucchio selvaggio e neppure la costruzione sofferta e politicamente "urgente" di Before the Rain.

Il nuovo film di Giuseppe Bertolucci invece incuriosisce, colpisce ma non appassiona. Bertolucci ama sperimentare e qui prova a inventare un cinema, uno stile (e una storia di donne) che rileggono se stessi, esasperando la rappresentazione nella rappresentazione, il miscuglio di falso, vero e illusione che danno vita al teatro come al cinema. L'amore probabilmente affascina dal punto di vista visivo, sfruttando la novità delle tecniche digitali, lavorando più sulla struttura formale che sui sentimenti, più sui volti che sui corpi, evidenziando ogni tassello della costruzione del racconto, ma togliendo così allo spettatore il "suo" piacere di immaginare e di entrare nella storia. Un cinema che trova nel suo eccesso di sperimentazione il suo pregio, ma anche il suo difetto.

Bully dell'americano Larry Clark, dopo lo scandalo gratuito di Kids, concretizza meglio il suo scopo, delineando il profilo di un gruppo di ragazzi alla deriva della tipica media borghesia statunitense. Il film trae spunto dalla brutalità di un fatto di cronaca (c'è anche un libro alle spalle) e sconvolge per l'insieme di elementi "esplosivi" che riesce a miscelare: turpiloquio, droga, eccessi sessuali, violenze efferate. Il tutto affrontato con sconfortante superficialità morale: è davvero così incolmabile il vuoto che ha preso possesso della gioventù americana?

Uddress Unknown, il nuovo film di Kim Ki Duk, che aveva scioccato il pubblico lo scorso anno con Seom, non esaspera i suoi temi, ma ribadisce l'atroce brutalità che fermenta all'interno del suo universo cinematografico: una bestialità incontrollabile e generalizzata, come a voler raggruppare un intero popolo, a rappresentare un incontrollabile maledetto destino.

Trabocca invece di umanità e di spassosa leggerezza messicana Y tu mamà también: ancora giovani, ancora alle prese col sesso, ma con una contagiosa spensieratezza di fondo che si stempera alla distanza. Julio e Tenoch sono due giovani amici che, con una ragazza poco più grande di loro, intraprendono un piccante viaggio verso una sperduta, meravigliosa spiaggia: un'immersione nei paesaggi messicani, il tempo di un'estate alla ricerca della propria identità, di un'esistenza senza inibizioni... La lieve amarezza conclusiva è un momento di "revisione" per la vita dei due ragazzi e per il tono stesso del film che, proprio nel finale, prova a farsi narrativamente più "adulto".

Il matrimonio della figlia è l'occasione per riunire tutti i componenti di una numerosa famiglia e far emergere vecchi e nuovi conflitti e prese di coscienza di sommessi sentimenti. Monsoon Wedding di Mira Nair  film successivo in archivio, intriso di una passionalità puramente indiana e condito con una strampalata ilarità generale, non manca di affrontare forti tormenti affettivi e scomode tematiche interpersonali (pedofilia compresa): al di là della storia colpiscono soprattutto la sensualità dei gesti, la varietà dei colori, le usanze inconsuete... Inutile dire che la scrosciante pioggia del monsone sarà per i vari personaggi l'occasione per una decisiva liberazione interiore.

E' ancora un ragazzo il protagonista di Le souffle di Damien Odoul: uno stralcio di vita, di puro realismo, nella provincia francese. Al centro l'iniziazione di David, giovane solitario, sofferente per la sua condizione e desideroso di una vita diversa, più emozionante e "fuori dal branco". In un bianco e nero essenziale, gli eventi, partendo dalla banalità del quotidiano, si susseguono via via in un crescendo di tragica casualità.

E' The Course of the Jade Scorpion di Woody Allen a ravvivare il corso di questo festival. Come nella migliore tradizione alleniana il film diverte (molto) mettendo in scena personaggi impareggiabili, nutriti di una viva sensibilità e perfettamente delineati nelle psicologie. Fa da sfondo alla storia la New York anni '40 dove il detective Woody cade vittima di un mago: è il pretesto per gag a raffica e sorprendenti duetti con Helen Hunt.

Con The Others Alejandro Amenabar riesce a trasmettere tensione allo stato puro sfruttando una serie di elementi tipici dell'horror- thriller: il buio, il silenzio, l'isolamento a cui si aggiungono qui l'ambigua, algida interpretazione della Kidman, la nebbia della campagna inglese, l'architettura vittoriana della casa in cui si muove la vicenda.

Forti affinità infine tra Sabado dell'argentino Juan Villegas e Reines d'un jour di Marion Vernoux (Francia). Entrambi propongono l'intreccio di una serie di personaggi sulla trentina, in crisi. Un accavallarsi di parole, ma l'impressione è quella di soliloqui a sé stanti, in cui in fondo si dice poco o nulla: problematiche sole accennate e scarsità di emozioni.

Hollywood, Hong Kong di Fruit Chan è il secondo capitolo di una trilogia sulla prostituzione iniziata dal regista con Durian Durian (visto l'anno scorso qui a Venezia).  È la figura del maiale, attorno a cui gravita la vita di un padre e dei suoi due figli, a regnare incontrastata nel film, ambientato in un quartiere di baraccopoli a Hong Kong. Sarà l'assedio di Hollywood, sotto forma di complesso edilizio che sovrasta su tutti , e la commistione tra "sogno" e "viaggio" a cui aspira la giovane prostituta, a stravolgere il microcosmo di povertà e sporcizia del macellaio e i suoi "bambini". Forte di un'originalità tipicamente cinese, del gusto per il paradosso e la caricatura, di un'eleganza cromatica affascinante, Hollywood, Hong Kong riesce a coinvolgere oltre le aspettative e farci sentire vicini al delirio di quegli uomini dal corpo e dall'anima troppo poco umana.

Di tutt'altro genere Loin di André Téchiné, film di "frontiera", dal respiro dilatato e sommesso, in cui dalla prolissità del racconto emergono le sfumature di una città, Tangeri, che non lascia alcuna certezza né futuro per i tre protagonisti. Attraverso i colori (predominano il beige e l'azzurro) Techine ci restituisce una città libera dai luoghi comuni, multietnica e carica di profumi e di tensioni, ma non riesce a farci davvero vicini ai suoi personaggi, alle loro contraddizioni e al loro incerto destino.

Ritorna nella sua Gran Bretagna Ken Loach con The Navigators, raccontando l'infausta situazione di un gruppo di operai delle ferrovie, spiazzati dalla privatizzazione e dal nuovo corso della flessibilità lavorativa.  La disperata condizione sociale, economica e personale in cui vivono parte da un'idea da Bob Dawber che ha vissuto quell'esperienza in prima persona e che è morto da qualche mese, proprio per un tumore legato alle condizioni di lavoro. Loach, al solito, propone un cinema quasi documentaristico nella sua profonda aderenza alla realtà ed oscilla continuamente tra momenti di affettuoso humor e lucidi sguardi sulla grama esistenza della working class inglese.

"Guardo dove non guardano gli altri, dove gli altri non vogliono vedere" è una delle dichiarazioni con cui Ulrich Seidel ha accompagnato il suo primo lungometraggio, Hundstage (Canicola). E in essa sembra inquadrarsi perfettamente la messa in scean del regista austriaco. Con uno sguardo impietoso (quasi stesse girando un raffinato documentario), Seidel scruta uno scorcio di vita di alcuni personaggi lacerti da un tragico malessere interiore. Non c'è via di scampo per nessuno: sotto una calura insopportabile, con una buona dose di humor nero e un punta di sadismo (e qualche compiacimento) la rappresentazione della tranquillità cittadina di Hundstage appare un vero inferno, sprigiona una mostruosità recondita: è questo l'inevitabile sbocco del cinico benessere e dall'opulenza austriaca?

Delude l'atteso Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni. Due solitudini (Luigi Lo Cascio - autista fin troppo ligio - e Sandra Ceccarelli - madre distratta dalle incombenze del vivere) che casualmente si incontrano, si toccano, vivono appaiate, ai margini del sentimento. L'unica vera certezza è la rivoluzione dell'amore, che sconvolge e mobilità. Soave, come un racconto allegorico, sofferto, come la lenta consapevolezza di non appartenere a questo mondo. I primi piani riflettono una passione silenziosa, il continuo vagare delinea un percorso sconosciuto e desideroso di venire alla luce. Un'esistenza e un'incoscienza a volte incomprensibili per un film pretenzioso nell'idea e non all'altezza nella realizzazione: reggere quasi due ore su un io narrante estraniato, tra fantascienza e onirismo è un'impresa assurda, che azzera qualsiasi costrutto narrativo, che rende i protagonisti inquiete ombre appannate.

Trae spunto da un racconto di Arthur Miller il nuovo film di Amos Gitai, anc'esso molto atteso dopo la trilogia israeliana e il lancinante Kippur. Invece Eden si inabissa lentamente in un magma didascalico inconcludente: lunghi piani sequenza, dialoghi scarni e accademici, una recitazione contenuta, al limite dell'inespessività. Non mancano le tematiche care al regista in questa storia di "migrazione" degli ebrei americani in Palestina, nè i riferimenti all'attuale situazione politica ma permane una sensazione di assoluto distacco emotivo, di indifferenza che volge alla noia.

Come per ogni festival che si rispetti, anche quest'anno, non poteva mancare l'appuntamento con il cinema iraniano. Il soggetto di Secret Ballot è di Mohsen Makmalbaf ma la regia è affidata a Babak Payami. La storia ha luogo in un'isola semideserta il giorno delle elezioni, dove un commissario di seggio arriva dal mare per permettere il volto agli abitanti sperduti. La narrazione si svolge nell'arco di una giornata e, al solito, ha un suo risvolto metaforico: il percorso alla ricerca dei voto diventa un viaggio al limite dell'assurdo per mostrare quanto un paese come l'Iran sia profondamente attaccato alle tradizioni e restio al rinnovamento (il responsabile del seggio è una donna!). Contornato da trovate ironiche, spesso scaturite dai diversi incontri con buffi personaggi, il regista firma un prodotto di indiscussa qualità, (anche se non all'altezza dei suoi maestri).

Toscana 1732. E' una piece di Marivaux quella che Clare Peploe ha trasportato sullo schermo con Il trionfo dell'amore. Quasi fossimo noi stessi veri spettatori di un teatro, ricavato nel magnifico giardino della villa in cui si svolge la vicenda, veniamo deliziati dai travestimenti, dagli inganni e dalla passione che "vivono" gli attori, davvero bravissimi. La macchina da presa li segue da vicino, avvolge lo scatenarsi dei loro sentimenti: anche noi rischiamo di cadere, alla fine, vittime della seduzione dello schermo.

Ma è il ritorno di John Carpenter ad entusiasmare con il suo Fantasmi da Marte, accolto da un tripudio di applausi e urla. Carpenter non si smentisce, propone un film "suo" fino al midollo, lo arrichisce di effetti speciali ribadendo il suo visionario punto di vista, le sue ossessioni estreme nella lotta tra il bene e il male. Scatenato, teso, disilluso, Fantasmi da Marte è un western fantascentifico con sfacciati momenti di rivisitazione (Quel treno per Yuma, Distretto 13...): kitsch, sopra le righe, ma senza un attimo di cedimento.

E' un ritorno anche quello di Philippe Garrel, poco conosciuto, ma abituale frequentatore di festival. Sauvace innocence è una parabola sulla vita e sul cinema, che è vera vita. La storia delle peripezie produttive di Francois Mauge che, in memoria della moglie, vuole girare un film di denuncia alla droga, è il pretesto per esporre i conflitti interiori dei personaggi che si intrecciano ciascuno con la propria piccola storia. Con un retrogusto di nouvelle vague (a partire dalla scelta del bianco e nero) il film è un doloroso viaggio introspettivo: i protagonisti, messi uno di fronte all'altro, si scrutano, reagiscono alle parole ( più che ai gesti), sembrano frantumarsi. L'unico modo che il regista troverà per inseguire il suo sogno, lo porterà, tragicamente, alla distruzione dello stesso, lasciandolo inesorabilmente sconfitto.

Walter Salles in April despedacado (Aprile spezzato) racconta , in un Brasile oleografico agli inizi del '900, il conflitto di due famiglie e la tragica spirale di vendetta che le lega. Seguendo il giovane protagonista Pacù, Salles indaga sulle relazioni all'interno della famiglia, sui rapporti con l'ambiente, abbandonandosi ad una ricerca di poetica sfrenata, con simboli macabri (la camicia macchiata di sangue esposta al vento) e percorsi di snervante circolarità (il macchinario per la spremitura della canna da zucchero). E con un finale aperto alla speranza: la corsa liberatoria, l'oceano, le onde.

Ultimi tre film in concorso al festival. Impressionante il rumeno L'après-midi d'un tortionnaire di Lucian Pintilie, sorta di videointervista-confessione di un ex torturatore negli anni del regime comunista (in Romania è da stato da poco pubblicato un dizionario contenente 1700 nomi). Una giornalista e il nonno (si intuirà essere vittima anch'esso delle torture) vengono ospitati, in un tranquillo pomeriggio di sole, nella baracca della famiglia dell'uomo dal macabro passato. All'inizio del film appare tutto tristemente normale ma lentamente, attraverso la brutalità delle parole, affiorano i ricordi, e calerà impietosa l'ombra di crudeltà ed orrori terribili. Disarmante a partire dall'ambiente, la desolata campagna, sperduta e sicura, spietato nei confronti delle nuove generazioni (il figlio è un ultrà gasato e privo di senno), Pintilie riesce ad evocare, con la sola forza dei dialoghi, un'umanità sofferente e disperata.

Certo originale l'operazione che compie Antonio Capuano con Luna rossa. L'ascesa e il declino della famiglia Cammarano, rappresentata come una tragedia greca di Eschilo, fanno del film un esperimento raro ed innovativo nel panorama italiano. Il regista riesce ad ottenere un ottimo risultato, lavorando sulle sfumature cromatiche, sperimentando una recitazione ricca di drammaticità e ricreando atmosfere claustrofobiche. Ma ciò che resta è un film cupo, una saga di sangue esibita con stile.

Il serbo Goran Paskaljevic ha trovato un racconto in un libro di favole cinesi e ha deciso di farci un film, ambientandolo in Irlanda. Il risultato di questo curioso connubio è un'opera in cui permangono le radici culturali del regista che, già con La polveriera, aveva trattato dell'insinuarsi dell'odio. In How Harry  became a tree, il protagonista (l' Harry del titolo, magnificamente interpretato da Colm Meaney) ha come unico scopo nella vita individuare un nemico da odiare e da cui affrancarsi. Sceglie il suo bersaglio e non lo molla, si radica in lui e lo opprime con i suoi possenti rami, quelli della quercia in cui si trasformerà, per sorvegliare in eterno la terra a cui è profondamente legato. Una film piacevole, in bilico tra dramma e commedia, forzosamente simbolico.

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