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Dolls

Regia: Takeshi Kitano

Giappone 2002

Dolls segna il ritorno di Takeshi Kitano (Hana-Bi, L'estate di Kikujiro, Brother) che ritroviamo, ancora una volta,  qui in veste di regista, sceneggiatore e montatore ma non (e non accadeva da sei anni) come attore. Non a caso, proprio in questo film, Kitano ha deciso di non comparire sullo schermo, giacché, sostiene, non c’era un ruolo che gli si adattasse appieno. Ma Dolls costituisce, prima di tutto, una svolta, un’evoluzione nella carriera artistica di “beat” Takeshi: lo dimostra certamente la sua assenza come interprete, ma ne è vera conferma la straziante sensazione che cresce nello spettatore durante e dopo la visione. E’ quella sensazione creata dalle immagini attraverso la carica espressiva della luce e dei colori che sembrano qui formare dipinti autonomi di un’immaginaria esplosione (Kitano è anche pittore), una sensazione esaltata dal lirismo della rappresentazione, contrapposta al realismo dei dialoghi scarni e al limite dell’essenzialità, una sensazione estrema, di morte. Parrebbe quasi assomigliare (e per tanti, ahimè, l’effetto è stato questo) ad una litania di immagini mute e fini a sé stesse, condite di abiti fascinosi e attraversate dall’insensata follia che anima i personaggi. Si tratta invece, e il titolo lo suggerisce palesemente così come la scena in apertura del film (un estratto splendido di una rappresentazione al Teatro Nazionale di Tokyo), di bambole, o meglio, marionette del teatro bunraku, una forma di teatro risalente al XVI secolo, espressione delle tradizioni popolari giapponesi, in cui i marionettisti sono in scena assieme ad un narratore e ad un musicista di shamisen (un antico strumento a tre corde).  E i personaggi del film sono vere e proprie marionette, protagoniste di un dramma di Chikamatsu (il più grande autore di bunraku), travagliate dall’amore e dall’avversità dei sentimenti, vestite da improbabili, originalissimi e coloratissimi vestiti dello stilista Yohji Yamamoto, con le facce irrigidite (e quasi inespressive) come quelle bianche dipinte per le bambole bunraku. Ma le marionette, si sa, devono essere condotte da un marionettista e in questo caso è proprio Kitano ad adempire a questo ruolo. Non, quindi, parte del dramma ma fautore delle emozioni e costantemente visibile, nello stile e nel respiro, ora particolarmente ponderato e quasi più vicino a quello del suo padre artistico Nagisa Oshima. 

Sono tre storie autonome ma intrecciate tra di loro, quelle che compongono Dolls. Tre storie d’amore disperato caratterizzate da un cammino a ritroso di pentimento, di ripudio delle proprie scelte: un giovane lascia la sua ragazza per sposare la figlia del proprio capo, ma saputo del tentato suicidio di lei diserta la cerimonia nuziale per raggiungerla. Insieme partiranno per un viaggio “risanatore” lungo tutte e quattro le stagioni, legati l’un l’altro da una simbolica corda (rossa)… Un anziano boss della Yakuza si ricorda della ragazza che da giovane gli portava ogni giorno la colazione nel parco, poi abbandonata per rincorrere il suo sogno di potere. La ritroverà seduta sulla stessa panchina, con lo stesso vestito, pronta ad aspettarlo… Una giovane e famosa cantante pop ha un incidente d’auto che le sfigura la faccia. Si ritira in una vecchia casa sul mare, lontana da tutti ma il suo fan più devoto arriverà ad accecarsi pur di poterla avvicinare. 

L’esito delle tre storie non lascia troppo spazio alla speranza e, nonostante il tocco leggiadro di Takeshi Kitano, un incombente senso di morte grava sull’animo. Dolls rientra appieno nella rinnovata concezione esistenzialista nipponica configurandosi come nuovo fantastico saggio sul profondo valore della vita.

Far From Heaven

Regia: Todd Haynes

Usa 2002

Lontano dal paradiso, è la traduzione letterale di Far From Haven di Todd Haynes (Velvet Goldmine). Ci troviamo di fronte ad un mélo che fin dal titolo racchiude in sé un’arida prospettiva e una (futura) consapevolezza della realtà. Sarà, difatti, proprio questo il percorso interiore della protagonista: un percorso di cognizione della propria vita e del disfacimento dei valori che credeva indissolubili.

Far From Heaven non è affatto però un melodramma moderno, e lo si percepisce fin dal primo istante. Con lo scorrere dei titoli di testa, veniamo catapultati nei gloriosi anni cinquanta (è il 1957), in una splendida cittadina del New England (Hartford, Connecticut) dove vive l’altrettanto splendida e apprezzata famiglia dei coniugi Frank e Cathy Whitaker, l’uno direttore di una filiale di una società di televisori, l’altra casalinga premurosa e protettiva verso i due figli, moglie stimata ed invidiata dalle amiche (verrà addirittura intervistata da un giornale locale come esempio di perfezione muliebre). Sotto l’apparente, costante strato di serenità (delineato dal trionfo dei colori dei fiori e delle foglie, che sembrano scandire il tempo, dell’arredamento, ricercatissimo, dei vestiti, meravigliosi nella loro anti-modernità: gonne a ruota, corpetti strizzati, foulard di chiffon) in cui sembra vivere sia la famiglia Whitaker che tutta la cittadina, scalpita la sensazione amara dell’insoddisfazione, dell’ipocrisia, del razzismo. 

Quello di Haynes è un evidente atto d’amore verso un’epoca e la rappresentazione dello stile e delle contraddizioni da cui quell'epoca (quella indimenticabile della Hollywood degli anni cinquanta) è stata caratterizzata.  Un omaggio ai registi che hanno fatto la storia di quel periodo, John Stahl e soprattutto Douglas Sirk, da cui viene parafrasato anche il titolo del suo All That Heaven Allows (1955, in italiano Secondo amore) di cui Far From Heaven sembra quasi essere il rifacimento. Un rifacimento originale e non assolutamente impersonale da parte del regista, ottenuto grazie alla cura dei dettagli e alla maestria, in primis, della protagonista, Julianne Moore. La forza del dramma poggia tutto su di lei, capace di donare sempre sorrisi e gentilezze, anche quando è preda della sofferenza familiari (la crisi col marito, che si presenta dapprima come insoddisfazione sessuale e poi come manifesta omosessualità), malinconica come la Jane Wyman di Secondo amore, forte nel far valere il proprio punto di vista quando, non badando alle voci maligne, porta avanti il suo rapporto di solidale amicizia con Raymond, il giardiniere di colore. 

"Lontano dal paradiso" ciò che resta (e che trionfa) alla fine è la coerenza, è la passione. Quella di Cathy nella finzione del racconto, ma anche, nella concretezza della realizzazione, quella di tutti coloro che hanno partecipato a portare sullo schermo questo splendido mélo d’altri tempi: dal compositore Elmer Bernstein al direttore della fotografia Ed Lachman (premiato proprio a Venezia per questo suo contributo), alla costumista Sandy Powell (già oscar per Shakespeare in Love), a Dennis Quaid, in un ruolo inusuale ma azzeccato nell’interpretare un Frank in balìa degli eventi e di sé stesso, ad Haynes  film successivo in archivio, regista e anche sceneggiatore, che sa imbrigliare con raffinata eleganza la materia narrativa ed esaltare con il preziosismo della citazione la retorica del melò.

 

L'homme du train

Regia: Patrice Leconte

Francia 2002

È un respiro mesto e malinconico e assieme leggero ed epurato quello che ci propone Patrice Leconte nel suo L'homme du train. Un canovaccio solido, semplice, quasi essenziale: un luogo, la provincia francese, due personaggi soli, due esistenze agli antipodi che si incontrano per caso (o chissà, grazie ad una fiabesca coincidenza...) in una farmacia e scoprono reciprocamente le loro vite, attraverso i loro sentimenti e i loro sogni: Milan e Manesquier, l’uno taciturno e misterioso arrivato per rapinare una piccola banca locale, l’altro logorroico e divertente, professore in pensione amante della poesia.

Ed è proprio grazie all’afflato poetico, che Leconte sembra aver bene assimilato, che la struttura del film pare sospesa a mezz’aria, tra la realtà più tangibile fatta di luoghi, personaggi e situazioni a noi così comuni (riconducibili direttamente al pantofolaio Manesquier e al suo impulso di rinnovamento) e il presentimento onirico che porta con sé l’arrivo di Milan. Composto, levigato, accorto: così si presenta agli occhi dello spettatore il lavoro svolto dal regista sull’immagine attraverso movimenti di macchina accorti e meditati e l’alternanza dei toni: freddi quelli dell’esterno, caldi negli interni (fotografia di Jean-Marie Breujon)  quasi a riprendere la dicotomia psicologica dei due personaggi. Jean Rochefort (certo più meritevole della coppa Volpi del nostro Accorsi) interpreta il suo Manesquier sentitamente, quasi giganteggia  con naturalezza districandosi tra gag e pathos. Johnny Hallyday  (ancora una star musicale in Francia) adatta il suo sguardo da macho ad un Milan in fondo tenero e non privo di illusioni. Scopriranno entrambi di desiderare uno la vita dell’altro. E nella scena conclusiva le figure dei due uomini prima si sovrappongono, poi si distaccano per seguire ognuna la propria (nuova, differente?) strada.

 

 

 

Oasis

Regia: Lee Chang-dong

Corea del Sud 2002

Proviene dalla Corea del sud il film che più di tutti ammalia per il coraggio della messa in scena di un soggetto, già di per sé incandescente: l’amore tra un uomo e una donna, l’uno ritardato, l’altra paraplegica. Lee Chang-dong, nome da noi poco noto ma celebre in patria, scrive e dirige il suo terzo lungometraggio, una storia di solitudini che si incontrano, di sofferenze condivise, di disagio estremo e condannante. Lee Chang-dong  film successivo in archivio nasce come scrittore e si vede: la sceneggiatura è compatta e fin troppo ragionata, senza però incidere per questo sulla dolcezza, sulla struggente tenerezza dei due anomali amanti. 

Hong Jong-Du esce di prigione e si ritrova immerso nel caos metropolitano. Han Gong-Ju vive tutto il giorno all’interno di un appartamento, lasciata sola ad ascoltare la radio. Per caso si avvicinano e innocentemente iniziano a legarsi l’un l’altro, entrambi bisognosi di affetto… Il resto ha bisogno d’essere visto, fino alla conclusione programmatica, ad opera di un inesorabile destino. 

Oasis risplende della sublime interpretazione di Moon So-ri, l’attrice che interpreta la ragazza disabile: è davvero difficile stabilire se il suo handicap sia reale o se si tratti di una perfetta recitazione. Solo quando la si vede ballare, sorridente in un sogno, si percepisce fino in fondo lo sforzo e la bravura di quell’interpretazione così “vera”. E se Moon So-ri ha ricevuto il premio come attrice rivelazione, azzeccato è anche  il riconoscimento per la regia, lontana da qualsiasi patetismo in cui facilmente avrebbero potuto far incorrere  temi così delicati. La macchina da presa sfiora e accarezza, un po’ timida, i goffi movimenti dei due senza essere mai gratuitamente "ruvida"! E Oasis è la scritta che compare nell’arazzo appeso al muro di fronte al letto dove trascorre la maggior parte del tempo Han Gong-Ju. Sicuramente la metafora del suo sogno incessante, una parola e una visione che riassume insieme tutte le frasi e i discorsi che mai riuscirà ad esprimere.

 

Road To Perdition

Regia: Sam Mendes

Usa 2002

Road to Perdition segna il ritorno del regista inglese Sam Mendes  film successivo in archivio, reduce del successo (e dell’oscar) ottenuto con American Beauty e forte della libertà espressiva, e soprattutto finanziaria, conquistata dopo la consacrazione a “grande regista”. Questa volta costruisce un’opera altrettanto perfetta   ma di tutt’altro genere. Ci troviamo di fronte ad un gangster movie ben congegnato, dove ci sono i killer, le famiglie, i padri e i figli. Ed è sul rapporto padri-figli che si sviluppa essenzialmente la trama: Tom Hanks, un gangster irlandese al servizio del boss Paul Newman che l’ha adottato, vedrà moglie e figlio massacrati dopo che l’altro figlio, il primogenito, è stato testimone della resa dei conti tra due “clan”. Ha così inizio il drammatico cammino di autodistruzione di un padre (Hanks appunto) per salvare il figlio da un tragico destino e garantirgli un futuro migliore…

Mendes ha dalla sua una sceneggiatura meno banale della media dei copioni hollywoodiani ed è soprattutto molto abile nel dipingere ambienti e far trasparire stati d’animo, siano essi la messa in scena di un’analisi attenta e cinica di una società, quella americana, che vive l’ossessione verso alcuni incubi (o bisogni?) inconsci come violenza, criminalità e vendetta anche attraverso personaggi, spietati ma allo stesso tempo “puri”. Ed è un gran bello spettacolo il duello d’attori tra un Newman ruvido, segnato dal tempo e dall’esperienza, e un Hanks intrepido e disincantato e allo stesso tempo affettuoso (qualche volta cade però vittima di sé stesso: non è facile trasformarsi in “cattivo”...). In sordina un Jude Law spesso caustico, sempre capace di frizzare l’ambiente, anche quello di un’opera callida e non sempre autentica. Road to Perdition non riesce infatti, specie nel finale, a scontare il suo debito verso Hollywood e scade inesorabilmente nella profusione di valori quali l’amore, la serenità, il bene. Esemplari, consolanti… un po’ troppo manierati.

Lilja 4-Ever

Regia: Lukas Moodysson

Svezia 2002

Lilja è una ragazza di sedicianni. Vive in un anonimo sobborgo putrido e desolante disperso da qualche parte dell’ex Unione Sovietica. Viene abbandonata dalla madre che fugge in America con un uomo. E’ costretta a vivere sola, senza soldi ma non perderà mai la speranza che anche lei, un giorno, potrà condurre una vita decente. Il suo unico amico è un ragazzino più piccolo di lei, Volodia, ridotto nelle stesse condizioni. La loro vita non conosce altro che umiliazioni, il loro mondo è cosparso di desideri semplici e illusioni di serenità che non si realizzeranno mai. Per vivere è costretta a prostituirsi, viene ingannata da un uomo di cui si innamora che la convince a trasferirsi in Svezia, ma anche lì verrà maltrattata e condannata alla stessa vita che si è lasciata alle spalle.

E’ tremendo ripercorrere con il pensiero la storia di Lilja, perché spaventosa è l’idea che quella sia la vita di molte ragazze che, come lei, si trovano a vivere nella medesima realtà. Si tratta di una realtà frantumata di un paese decaduto in cui non persiste praticamente più alcun valore, se non, forse, quello dei soldi. Lukas Moodysson prosegue con il tracciare un ipotetico discorso sociale dopo Fucking Amal e Together (certamente più rasserenanti), ponendo qui una peculiare attenzione alla figura dei giovani, che più di tutti assimilano e sopportano e manifestano il dolore e l’incertezza che la vita li costringe ad accettare. Meno compiuto rispetto ai lavori precedenti, Lilja 4-Ever è soprattutto un feroce schiaffo atto a svegliare dal torpore tutti coloro che faticano a credere, o fingono di non vedere, la consistenza della sventura che incombe sul presente della "civiltà". E lo stile realista  , consunto, sporco, alla “danese”, non potrebbe essere più azzeccato per lo scopo. 

Concretamente consci del dramma a cui assistiamo non risulta facile  arrendersi,  E accettare, inermi, il destino della protagonista. Lilja (Oksana Akinshina), candida e tenace, ci afferra con il suo ingenuo sorriso e lo sguardo sfinito di chi ha visto troppo, per dirigerci laddove, laida, alberga la rovina.

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