Vox Lux
Regia: Brady Corbet
USA 2018
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Il film segue da vicino l’ascesa di Celeste dalle ceneri di un’immensa tragedia nazionale a superstar pop. Il film abbraccia un arco di tempo di diciotto anni, dal 1999 al 2017, delineando alcuni importanti momenti culturali attraverso lo sguardo della protagonista.
Di suono, di luce. E di morte. Il cinema è un’arte composta di elementi primari e fondamentali e della consapevolezza che il loro compiersi sia frutto di un decesso annunciato. Ogni fotogramma, ogni bit, ogni vibrazione, cristallizza un istante di tempo, di vita, e li condanna a una reiterazione fantasmatica e illusionistica in cui il mezzo cinematografico decreta la fine annunciata dello scorrere del tempo. Sembra che per il giovane attore, e qui regista, Brady Corbet, il tempo, e la storia, sia una macchina infernale da scandagliare ed elaborare attraverso biografie inventate e plausibili di personaggi del loro tempo, di un tempo portatore di incertezze, mitologie, casualità, perdita. Ancora una volta, dopo l’impressionate esordio di The Childhood of a Leader (2015), il racconto viene affettato in episodi, momenti temporali definiti e incastonati in una storia più grande e riconosciuta, quella della cronaca, o della saggistica, in cui si realizza lo sviluppo del protagonista e attraverso di esso, le conseguenze di una realtà già avvenuta, forse metabolizzata, e per questo scissa nei meandri di un rigurgito passato, finito, estinto. “Il mio film precedente, The Childhood of a Leader, è ambientato in Europa all’inizio del Ventesimo secolo e prende in esame eventi che hanno, spesso inavvertitamente, definito quell’era. Testimone delle atrocità di un’epoca, il giovane protagonista del film è causa di altrettante atrocità perpetrate nell’epoca seguente”, racconta il suo autore.
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Vox Lux cambia ambientazione, cambia epoca ma prosegue il discorso. É un’opera fin dal titolo, difficilmente accessibile, stridente, roboante ma profondamente allettante e, nell’implacabile e lucida disamina di un modello estetico e culturale e, nella fervida convinzione di poter modellare la forma cinematografica come un materiale plasmabile a proprio piacimento. Secco e preciso nella struttura narrativa divisa in due atti più un prologo e un epilogo il racconto procede ferale accompagnato dall’onnisciente voce fuori campo di Willem Dafoe, contrappunto sonoro cinico e beffardo della vicenda che vede coinvolta Celeste nel suo percorso di genesi (Atto 1) e rigenesi (Atto 2).
Per Corbet, qui anche sceneggiatore, tutto ruota attorno al tempo, che come recita il sottotitolo, fa di questo film “un ritratto del XXI secolo”, un secolo che fonda le sue basi sulla morte, e in particolare sulla strage compiuta da due alunni nella scuola media in cui si trova la giovane e innocente Celeste, e alla quale miracolosamente sopravvivrà, pur portando il marchio perenne al collo. In questa scena, in cui Corbet mette in chiaro la sua idea di messa in scena prodigiosa e fervente di un coraggio e una ricerca di non emulazione di modelli prefigurati precedenti, si genera quel senso di vana casualità della vita foriera di sogni, mostri e distruzione. Celeste diventa la soluzione all’insostenibile verità della morte, e il desiderio di essa, e attraverso la progettazione di un meccanismo idealizzante qual è la musica pop, diviene una star, o meglio, una creatura tormentata ma celebrata, dal volto angelico e turbato prima (interpretata da Raffey Cassidy), e provato, incerto, sfaldato poi (Natalie Portman).
La pop star è uno strumento simbolico e perturbante che (ese/a)mplifica un modello di raffigurazione e ne determina l’andamento nella cultura di massa, una connivenza che è una violenta e sinistra forma di potere, quel potere attorno al quale si struttura la decadenza della storia, del costume, dell’estetica. Una ricerca del significante quasi parnassiana quella del regista - supportato dalle seducenti intuizioni illuminotecniche di Lol Crawley, dalle cupe sinfonie di Scott Walker e i pezzi originali della cantautrice Sia - ma non per questo di puro carattere esornativo: ellissi temporali, piani sequenza, modificazioni dell’unità temporale, debiti a Lars Von Trier, utilizzo della pellicola come supporto, vengono maneggiate senza alcuna reverenza, ma con la sfrontatezza di chi vuole perseguire una finezza del dettaglio ma non assolutamente la compiacenza dell’occhio, e ancora di più, il gradimento di un gusto, né diffuso, né ricercato. Tante carne al fuoco, dunque. Le due parti in cui è diviso il film formano un doppio inverso e consequenziale, poli opposti di un’unica unità: entrambe introdotte da una mattanza - prima e post 11 settembre, richiamo alla Columbine e a Sousse in Tunisia - raggelante la prima, glitterata la seconda, la cui esegesi rende i nostri tempi un concentrato di follia mortifera necessaria alla sussistenza della fama stessa. Così il senso di colmo svuotamento prodotto dall’accatastamento di eventi e dalle nevrosi della protagonista culmina in una lunga performance on stage dell’idolo pop, fulminante enfatizzazione del successo, di suoni, di luci; e di morte. E’ proprio in quell’esibizione che il film ridefinisce il concetto di vuoto. Il vuoto che riecheggia e pervade gli abitanti di questo millennio, i quali non vogliono vedere, non vogliono sentire e ai quali non rimane che ripudiare questa visione.