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Far East Film Festival di Udine 17

Anno dopo anno il Far East Film Festival cresce. Arrivato alla diciassettesima edizione, a un passo dal diventare adulto ma animato da un entusiasmo che anziché scemare, di volta in volta, espande i propri orizzonti, l’eco del proprio immutato sentimento rivoluzionario e la propria reputazione internazionale, divenendo di fatto uno tra i più importanti avamposti del cinema dell’Estremo Oriente in Europa. Conferma ne è stata quest’anno la presenza emblematica di due ospiti i cui nomi rappresentano la storia e la tradizione di un’intera cultura, cinematografica e non, e il cui prestigio, affetto, séguito mediatico sono diffusi ai quattro angoli del globo: Joe Hisaishi e Jackie Chan. 

Hisaishi, compositore, pianista, direttore d’orchestra, regista, scrittore è un autentico idolo in patria, il Giappone, ed è l’autore di memorabili colonne sonore per lo Studio Ghibli (tra cui Il mio vicino Totoro, Kiki consegne a domicilio, Porco Rosso, La città incantata, Il castello errante di Howl, Ponyo sulla scogliera, Si alza il vento di Hayao Miyazaki e La storia della principessa splendente di Isao Takahata), per Kitano Takeshi (tra cui Hana-bi, L'estate di Kikujiro, Brother, Dolls) e per Departures di Takita Yojiro, vincitore dell’oscar nel 2009. Miyazaki ha detto di lui: «Ho lavorato con Joe in nove film: incontrarlo, nel 1983, è stata una delle maggiori fortune che mi sia mai capitata!» e il pubblico di Udine (proveniente da tutta Italia) non si è lasciato sfuggire l’occasione davvero unica e ha riempito letteralmente ogni posto disponibile al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per assistere allo speciale concerto di apertura del festival.

A decretare invece ufficialmente aperto il festival con i suoi film è stata la presenza di una leggenda dell’industria cinematografica di Hong Kong e di tutto il mondo e il cui nome non ha bisogno dii molte presentazioni: Jackie Chan è arrivato in occasione della presentazione mondiale del suo ultimo film, il super kolossal Dragon Blade di Daniel Lee ed ha rappresentato una autentica consacrazione per il FEFF tanto da essere stato inserito da Variety tra i 50 festival più importanti del mondo. 

I fasti del riconoscimento non hanno però sminuito la passione e lo spirito che da sempre contraddistinguono il festival udinese, quest’anno magnificamente sintetizzato nelle immagini della sigla realizzata dal concittadino Carlo Zoratti (The Special Need) che al motto di “the emotional chain reaction” ha introdotto la ricca selezione di film: 70 titoli provenienti da 11 paesi: Hong Kong, Giappone, Cina, Corea del Sud, Singapore, Filippine, Taiwan, Thailandia, Indonesia, Vietnam e, per la prima volta, Cambogia.

I premi, rigorosamente assegnati dal pubblico, hanno decretato il trionfo della Corea del Sud, occupando interamente il podio con al primo posto l’epico blockbuster Ode to My Father del regista JK Youn - storia drammatica e commovente ed epopea familiare della generazione di chi da bambino ha vissuto gli orrori della guerra di Corea (1950-53) e ha poi contribuito a far uscire il paese dalla povertà fino a diventare la potenza economica dei giorni nostri -; al secondo The Royal Tailor diretto da quel Lee Won-suk, la cui opera prima How to Use Guys with Secret Tips (vincitrice per primo premio al FEFF15) è divenuta un’autentica commedia cult, ma che qui cambia totalmente registro addentrandosi in un noiosissimo racconto in costume per celebrare la grandiosità delle origini della moda coreana; infine al terzo posto My Brilliant Life di E J-Yong, un melodramma costruito ad arte per far scendere litri di lacrime, basato sul romanzo bestseller del 2011 My Palpitating Life di Kim Aeran, incentrato sulla storia di una famiglia il cui figlio è nato con la progeria, una patologia genetica rarissima che provoca un invecchiamento precoce. 

Un podio che in definitiva tiene solamente conto di un gusto popolare un po’ scontato e sensibile alla compassione e alla fiducia (in molti probabilmente, nel guardare The Royal Tailor pensavano al precedente film di Won-suk) ed esclude la parte più corposa e interessante, fatta di peculiarità di genere, film a basso budget, stravaganze indimenticabili, che rende il cinema dell’Estremo Oriente meritevole di un’osservazione mirata e non banalmente folcloristica.  

In questi anni di crescita inarrestabile del mercato asiatico in cui il colosso cinese si appresta a divenire il leader indiscusso, il Giappone, in preda ad una crisi che è sia economica ma soprattuto sociale, elabora, con il suo cinema, il sentimento di un tempo senza punti di riferimento precisi, senza guide in grado di accogliere lo smarrimento di un popolo che affida la propria speranza alla capacità del singolo di trovare dentro se stesso una ragione per vivere. Corpo e sostanza di questa sensibilità sono racchiuse nelle due incantevoli interpretazioni offerte dalla giovane Sakura Ando, attrice lanciata da Sono Sion in Love, Exposure (2008), e poi sempre impegnata in ruoli audaci e incisivi (Torso, esordio alla regia di Yutaka Yamazaki, 2009, Penance di Kiyoshi Kurosawa, 2012): in 0,5mm di Ando Momoko e in 100 Yen Love di Take Masaharu dimostra ancora una volta di essere un soggetto tenero e mutante, gravido di asprezza, malinconia, rabbia e poesia.

 

0,5mm scritto (a partire dall’omonimo romanzo di cui è autrice) e diretto dall’altrettanto giovane Ando Momoko, sorella di Sakura, è un film coraggioso e straordinario in cui il tempo segue il ritmo di un ponderato respiro verso un abisso nel quale l’interlocuzione non è mai soddisfatta da alcuna risposta. Una donna lavora come badante presso anziani costretti a letto; una notte accetta con riluttanza una singolare richiesta del vecchio ma le conseguenze di questo gesto le faranno perdere il lavoro e di trovare quindi un altro modo per sopravvivere. Da qui prende avvio un road movie anomalo che non manca di stupire per l’originalità con la quale la regista maneggia il cinema con la partitura emotiva della narrazione. 

100 Yen Love è invece un film sul pugilato in cui però la protagonista è una ragazza, psicologicamente distrutta, che in maniera casuale arriva a cercare un riscatto attraverso i pugni. Preceduto ovviamente da un copioso bagaglio figurativo di film sulla boxe (in particolare Million Dollar Baby) il film di Take Masaharu si distingue per la netta posizione di non assecondare un pacifico e risolutivo accomodamento del conflitto in corso nella protagonista e soprattutto per l’interpretazione offerta dalla Ando, traspirante di un’incredibile sintesi mimetica e di un ventaglio di passioni, sulla quale è sorretto interamente il film. 

E sono degli amabili outsider anche i protagonisti del secondo film di Take Masaharu presente a Udine: Unsung Hero è proprio uno degli suit actors, gli attori che recitano travestiti dalla testa ai piedi in costumi di qualunque genere, a partire da Godzilla fino ai supereroi vestiti di spandex nei programmi per ragazzi tokusatsu (“effetti speciali”), da decenni un’istituzione del cinema e della televisione giapponesi, ma quasi sempre ricoperti dall’anonimato. Un atto d’amore dolceamaro per il cinema e un senso di lento disfacimento di un passato che diventa sempre più sedimento di una memoria spuria e corruttibile. 

La perdita della memoria è per l’appunto anche il motore drammaturgico dell’ultima fatica di Yamashita Nobuhiro, La La La at Rock Bottom, e di Forget Me Not, spiazzante e malinconica opera prima del giovane attore Horie Kei. Entrambi con uno sguardo rivolto agli adolescenti e con un’attenzione non stereotipata alle dinamiche di rapporti sociali non convenzionali ma per questo ancor più intrise di passione e immaginazione suggerite, delicate e lontane dal baccano e dal clamore dell’eccezionalità. Yamashita Nobuhiro è uno degli autori più importanti del nuovo cinema nipponico di cui lo scorso era stato presentato l’indimenticabile Tamako in Moratorium, con La La La at Rock Bottom (il cui titolo originale è Misono UniverseI, in riferimento al nome di uno storico club di osaka) ritorna ad inserire la musica tra i protagonisti del film e subito il riferimento corre al 2005 e a quel Linda Linda Linda che è stato un successo ovunque sia stato presentato. La storia inizia quando un concerto live di un gruppo di musicisti rock/soul di mezza età (interpretati dai componenti della vera band Akainu di Osaka) viene bruscamente interrotto da un tipo tutto pelle e ossa e dall’aspetto malconcio che sale barcollando sul palco e afferra il microfono. Segue una canzone a cappella sorprendentemente potente; subito dopo il misterioso cantante si accascia a terra come un albero abbattuto. Quando si riprende, con le cure della giovane ed efficiente agente Kasumi, non ricorda più nulla, nemmeno il suo nome, ad eccezione del testo della canzone che ha appena cantato. Da sottolineare la presenza di Nikaido Fumi, interprete per Sion Sono in Himizu (per il quale ha vinto il premio Marcello Mastroianni a Venezia 68) e Why Don't You Play in Hell? nei panni della tenace e volenterosa Kasumi. 

Forget Me Not è invece un oggetto ibrido e toccante il cui ricordo (e proprio di ricordi tratta il film) pianta radici profonde dopo la visione. Basato sull’omonimo fantasy del 2006 (Wasurenai to Chikatta Boku ga Ita) di Hirayama Mizuho, nelle mani del registra il risultato è una storia d’amore infinita ma che inevitabilmente non può realizzarsi nel compimento del suo desiderio. La studentessa Oribe Azusa (Hayami Akari), al terzo anno di scuola superiore, è carina e vivace – e nessuno, neanche suo padre, riesce a ricordare la benché minima cosa su di lei. Azusa trascorre la sua esistenza presentandosi continuamente alle persone, finché a un certo punto è pronta a rinunciare completamente agli altri esseri umani. Poi un giorno un ragazzo in bici la fa cadere e sfonda il misterioso campo di energie negative che la circondano. Il ragazzo si chiama Hayama Takashi, è nella sua stessa scuola e frequenta il suo stesso anno, ma in un’altra classe, e diventa il suo confidente, il suo difensore e, infine, il suo boyfriend, giurando che non la dimenticherà mai. 

Il desiderio della protagonista di non essere dimenticata e in definitiva la volontà e la lotta per distaccarsi da un’inesorabile e misteriosa invisibilità sono gli elementi di una narrazione che scavalca l’immaginario per aprirsi al simbolico. La giovane, nel relazionarsi con gli altri, approfondisce un’interlocuzione che in fondo appartiene ad ognuno di noi. Nel fondere romance, fantasy e dramma, quest’ultimo finisce per invischiare una tensione che lentamente definisce un baratro nel quale non siamo in grado di puntare lo sguardo. E la capacità del regista, come spesso accada nel buon cinema del Sol Levante, è proprio di mantenere un equilibrio tra le parti, senza caricare troppo il melodramma, e di significati e di risposte. Complice di nuovo l’attrice protagonista, dal volto dolce e nubiloso di Hayami Akari, già apprezzata lo scorso anno al suo esordio nel ruolo di Momose nella commedia romantica My Pretend Girlfriend di Yakumo Saiji.

 

Seguendo ancora il percorso offerto dai giovani attori giapponesi, sarebbe un peccato imperdonabile lasciarsi sfuggire l’evoluzione continua di Shōta Sometani, consacrato con il premio Marcello Mastroianni a Venezia 68 assieme a Nikaido Fumi per Himizu, e presente in tre film presentati a Udine: il dittico Parasyte (Part 1 e Part 2) di Yamazaki Takashi (The Eternal Zero) e Kabukicho Love Hotel di Hiroki Ryuichi. 

Il primo, tratto dal fumetto cult in patria (ma conosciuto anche in Italia con il titolo L’ospite indesiderato, RW Edizioni) di Hitoshi Iwaaki racconta la storia di Shinichi, un teenager ombroso, e Migi, il parassita alieno che si è impossessato della sua mano destra. Fantascienza all’opera dunque, ma non solo, poiché Yamazaki ha la grande capacità di variare abilmente le tonalità dal grottesco, allo humor nero della commedia, fino all’horror. Un grande spettacolo (con sfoggio di effetti speciali sorprendenti) dal gusto cinefilo (L’invasione degli ultracorpi) e un sottotesto inquietante che lo differenzia sostanzialmente dagli omologhi prodotti a Hollywood. Se la necessità da parte degli alieni della scorta proteica umana per sfamarsi e sopravvivere è un topos narrativo prolifico e variamente declinabile (Under the Skin), i parassiti che invadono Fukuyama, soprattuto nel secondo capitolo, divengono entità non solamente fameliche ma dotate di un impulso all’integrazione e apre la strada a una coesistenza. A partire dunque dall’ibrido Shinichi/Migi il parassitismo diventa duplice: nella continua guerra per la sopravvivenza di noi contro loro, lo scambio è interdipendente e, com’è inevitabile, anche affettivo. Con aspetto e abitudini diverse ma accomunati dalla stessa volontà di vivere e di amare. 

 

La mesta eclissi del miraggio d’amore è simbolicamente racchiusa nell’hotel a ore di Kabukicho, il quartiere a luci rosse nel distretto di Shinjuku, in cui Sometani incarna il direttorie Toru. Nel toccare, il più delle volte con accenni sfumati e disincantati, le vite che ruotano attorno a quello spazio consumato e anaffettivo (Toru e la fidanzata che sta per lasciarlo; la star del porno porno e gli inservienti occupati nella realizzazione delle riprese del film che si svolgono nell’hotel; una squillo coreana che sta per tornare in patra, il suo agente e il suo fidanzato; una detective e un’inserviente ricercata per un crimine; un “talent scout” di adolescenti minorenni) il veterano regista Hiroki Ryuichi - anima indipendente e anarchica fin dagli esordi negli anni Ottanta con i pink movies - proietta all’interno del suo hotel, in una sorta di schermo nello schermo, una deriva impotente, remissiva, inappagata del Giappone odierno. L’andatura di Sometani e il suo volto spaesato parlano ad un paese nascosto dal velo di una complice e premurosa formalità e incurante di una crisi che si consuma di giorno in giorno nell’intimista di una stanza d’albergo. 

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