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Festa del Cinema di Roma 11

Già a partire dal nome, quel Festa anziché Festival, tornato - così com’era nelle intenzioni originarie di Walter Veltroni - con la direzione artistica di Antonio Monda nel 2015, l’evento cinematografico della capitale vuole essere una celebrazione tout court del cinema e dunque, allontanandosi - giustamente, visto il collocamento ravvicinato con la Mostra di Venezia e il Festival di Torino - da uno spirito di ricerca puramente cinefilo, esaltare la mondanità, l’incontro e la popolarità insiti nello spettacolo come forma di intrattenimento connaturata della dolce vita romana.

E visto il riscontro caloroso e assai generoso da parte dei cittadini che non hanno mancato di riempire ogni ordine di posto nelle sale, c’è da credere che la formula sia effettivamente azzeccata. Secondo le parole del direttore “non si trattava, né si tratta, di una semplice differenza lessicale, ma della volontà di celebrare la settima arte attraverso film, incontri, retrospettive ed eventi, uscendo dallo schema del concorso, della priorità attribuita al red carpet e all’esclusiva della prima mondiale. Ogni scelta operata nasce da una riflessione sul senso profondo di cosa rappresenti il linguaggio delle immagini in movimento, e su come lo spettatore possa essere arricchito da questi dieci giorni di celebrazione”.

Ad osservare con attenzione la sostanza di questa Festa però, è necessario un discreto sforzo per rintracciare il senso formale che ha partorito questo collage di film, tributi, omaggi, incontri, retrospettive (a registi: Valerio Zurlini, ad attori: Tom Hanks, a generi: America Politics), pre-aperture, sezioni parallele e chi più ne ha più ne metta. L’idea è probabilmente quella di cercare di accontentare tutti, ma proprio tutti, ed in tal senso bisogna riconoscere che, scorrendo il programma, ogni spettatore, per età, genere, gusti, poteva sicuramente incontrare pane per i suoi denti. A dimostrazione di quando detto bastava infatti banalmente percorrere l’Auditorium Parco della Musica (sede centrale del festival) per incontrare ogni tipo di pubblico, dalle scolaresca delle scuole elementari, ai pensionati, fino al critico più esigente. 

Una celebrazione di questa portata non può prevedere di conseguenza ambiti di impavida sperimentazione ma sfruttando la nobile arte del compromesso, la selezione ufficiale ha portato sugli schermi romani corpose anteprime hollywoodiane prima della loro uscita in sala (il vincitore dell’Oscar Moonlight, Snowden, Manchester by the Sea, The Birth of a Nation e Florence Foster Jenkins) e qualche autore che non ti aspetteresti come Andrzej Waida, Werner Herzog e Mia Nishikawa. 

Tra il piacere splatter dell’horror coreano Train to Busan di Yeon Sang-ho, amarissime delusioni come l’omaggio al wuxia in tre dimensioni Sword Master 3D di Derek Yee, la poetica animazione de La tartaruga rossa prodotta da Toshio Suzuki e Isao Takahata per lo Studio Ghibli ma diretto dal francese Michaël Dudok de Wit, ma non è nemmeno mancato lo stupore per l’opera inattesa, proveniente da molto lontano che, senza grande clamore, imprime un segno indelebile lungo ben oltre la durata del festival. Goldstone dell’australiano Ivan Sen ha infatti incentivato ancora di più il senso di sfiducia verso molto cinema popolare contemporaneo, marcando l’urgenza, mai sufficientemente ribadita, di cercare ripetutamente altrove per non perdere l’opportunità di lasciarsi sfuggire alcune voci così affascinanti. 

La Festa di Roma ha ancora molta strada da percorrere per maturare una visione del cinema coerente e non solo fastosamente rievocativa.

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