Torino Film Festival 27 : Festa Mobile
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Fuori dal contenitore del Concorso, a cura di Emanuela Martini la sezione più poliedrica e diversificata nominata Festa Mobile: “uno spazio in movimento, nel quale il festival propone, fianco a fianco, le anteprime più attese e i film più stimolanti visti all’estero, gli esemplari più bizzarri e i più rigorosi sguardi sulla realtà, i generi sempre rinascenti e le più sottili analisi d’autore”.
Sicuramente lo spazio in cui è possibile incontrare autori già affermati, e, in ogni caso, esaminare lo stato del cinema nella vastità figurativa delle forme di genere, assai tra di loro interpolate, esperite, giustapposte nelle variazioni costitutive il nutrimento necessario al cinema per manifestarsi. Uno spazio dov’è stato possibile coerentemente ospitare due cineasti distanti ma allo stesso tempo ugualmente portavoce di una propria idea di cinema, spesso slegata alla convenzione di fruibilità o alla placida identificazione a canoni estetici immediatamente ravvisabili, quali appunto Emir Kusturika e Francis Ford Coppola. Dell’uno è stata presentata la versione ancora inedita in Italia di Underground lunga 312 minuti, mentre dell’altro, omaggiato per l’attività della sua compagnia di produzione, l’American Zoetrope, l’anteprima italiana dell’ultimo film, Tetro (Segreti di famiglia).
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Tra i titoli in programma da ricordare: il filippino Kinatay di Brillante Mendoza, cupo ed estremo thriller già vincitore del premio per la Migliore regia al Festival di Cannes 2009, e di cui il successivo Lola è stato visto a Venezia 66; una vera rivelazione dal Canada, l’horror della parola, Pontypool di Bruce Mcdonald; Yang Yang, di Cheng Yu-Chieh, dramma taiwanese di raffinata sensibilità; Lulu & Jimi del tedesco Oskar Roehler, regista di Le particelle elementari, palese dichiarazione d’amore per il David Lynch di Cuore selvaggio.
Espressioni queste di un cinema in grado ancora, pur con soluzioni radicalmente differenti, di rischiare, dichiarando la propria passione, prendendo sul serio l’artificio della creazione, e provando a credere all’autorità della propria visione.
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Kinatay conferma nuovamente il radicale talento espressivo del suo autore: Mendoza adotta una regia realisticamente perturbante per raccontare l’incubo che può prender atto dal caos di Manila. Diviso in due piani sequenza, uno di giorno, uno di notte, il film segue la vita di Peping, giovane studente dell’accademia di polizia, nel giorno in cui deve sposare la giovane donna che gli ha da poco dato un figlio. Per ottenere qualche soldo in più, Peping, già coinvolto in u traffico di droga, accetta senza pensarci su un lavoro ben pagato offerto da un collega corrotto. L’incarico porterà Peping a guardare il volto della morte, divenendo partecipe del rapimento, della tortura e dell’omicidio di una prostituta.
“Ognuno di noi potrebbe essere come Peping. E’ in parte innocente e ignaro di quanto può essere realmente pericoloso il mondo. Nonostante possa essere considerato un complice del crimine commesso, ne è anche una vittima. Diventa, in un certo modo, testimone della sua stessa morte”. L’abilità di Mendoza sta tutta nella scelta registica di mantenere sempre lo sguardo su un piano di realismo esasperato. La ricchezza dei dettagli della scena (il suono, in particolare, definisce un vero e proprio ambiente), l’assenza di montaggio, l’irregolarità della ripresa producono l’interdizione di ogni possibilità di redenzione morale della visione. Ma soprattutto Mendoza ragiona ancora una volta sull’assenza di controllo che inevitabilmente affligge le sorti dell’essere umano.
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Pontypool è un horror decisamente non convenzionale, visto che si potrebbe definire come una particolare commistione tra Carpenter e Rohmer. Claustrofobico, ironico e senza un attimo di tregua dalla parola, essendo proprio il linguaggio il soggetto stesso del film, e di conseguenza il potere del verbo come minaccia e risoluzione dal conflitto che esso stesso può causare.
Girato a basso costo, la vicenda si svolge interamente all’interno di una piccola stazione radiofonica che trasmette dagli scantinati della chiesa di Pontypoll, una piccola città dell’Ontario. Grant Mazzy è uno speaker radiofonico a cui viene affidata la conduzione di un programma del mattino. Quella che sembra l’ennesima giornata priva di eventi rilevanti si trasforma invece in un incubo quando gli abitanti di Pontypool sembrano cadere in preda a una forma di follia collettiva provocata da un virus misterioso.
L’idea del film nasce a partire dal libro di Tony Burgess (Pontypool Changes Everything, 1998), dove si descrive di un’infezione che si annida nella lingua, mentre il modello per la sceneggiatura deriva da La guerra dei mondi, il radiodramma di Orson Welles e del Mercury Theatre trasmesso nel 1938, capace di diffondere il panico per la minaccia di un’invasione aliena. Nel film di Bruce Mcdonald il pericolo è costituito dall’improvvisa diffusione di un virus sconosciuto capace di rendere le persone degli zombie assetati di sangue.
Il gioco è tutto nel fluire ininterrotto e incessabile del racconto dello speaker, e nel rapporto che egli instaura con i suoi ascoltatori e con noi spettatori. La paura è una corda tesa invisibile agli occhi, e la violenza è quasi del tutto affidata solo ad una personale rappresentazione immaginativa. Alla fine rimane un’angoscia indecifrabile e sfuggente. “Non abbiamo mai detto nulla di sensato” dichiara Mazzy, e probabilmente, proprio in questa provocatoria dichiarazione si esprime il senso del limite imposto dalla lingua. Un limite fecondo e strutturato, al quale impunemente non si fa caso, rischiando terribili conseguenze.