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Torino Film Festival 34

Nulla è cambiato, nella forma, per fortuna. Il Torino Film Festival, tra le polemiche con l'amministrazione, tra i tagli alle spese e i conflitti con altri festival, conferma la squadra dell'anno precedente e gli ottimi risultati. Cambia ovviamente il contenuto, e, di nuovo, c'è n'è per tutti i gusti ed è qui che il fiuto della direttrice e dei suoi selezionatori si fa sopraffino ma mai meramente elitario o pressappochista. Per fortuna. 

Strutturato come sempre in maniera labirintica tra le solite numerose sezioni, necessarie per contenere una “mole” di film di altrettanti generi, il TFF 34 rifulge di dirompente cinefilia e assicura con fermezza di poter recuperare quanto di meglio circola in giro per il mondo, con uno sguardo al passato e uno al futuro e una naturale, curiosa inclinazione per la soggettività più spinta e originale. 

Non a caso quindi, ogni percorso preconfigurato da parte dello spettatore finisce per prendere traiettorie inattese: posti limitati nelle sale quasi sempre stracolme, file chilometriche, condizioni atmosferiche impervie e orari impossibili, portano inevitabilmente a scelte nuove, nuove visioni, sviluppi della visione che si diramano nella storia del cinema, nella sperimentazione, nella realtà, nei formati più arditi e perché no, anche nella grande anteprima di turno. 

 

Mai come quest’anno, l’estremo oriente ha imposto un peso determinate e decisivo nelle opere presentate nelle diverse sezioni del festival: non tanto per la quantità, visto che i film orientali non spiccavano certo per numero, quanto per lo scarto, a volte abissale, espresso dalla cifra estetica e narrativa della loro messa in scena.  

Dopo l’innegabile Leone d’Oro a Venezia 73 per The Woman Who Left, il TFF ha presentato in Italia il precedente capolavoro di Lav Diaz (la prima mondiale fu a Berlino) A Lullaby for a Sorrowful Mystery, otto meravigliose  e indelebili ore in cui abbandonarsi nelle mani del talento del maestro filippino, nelle quali Diaz racconta l’epopea del connazionale rivoluzionario Andrés Bonifacio y de Castro. Lo stile inconfondibile del regista è una volta di più la dimostrazione di come il suo cinema sia la fonte inesauribile di una forza rivoluzionaria e incantatrice che in qualche modo stabilisce un limite così marcato da rendere i film, così per come siamo abituati normalmente a vederli, un po’ più estranei, insipidi e prevedibili. 

Ma le anomalie, si sa, non mancano mai e come è ormai abitudine da diversi anni, il rapporto confidenziale instaurato dal festival torinese con Sion Sono è la garanzia di ritrovare un autore oltre ogni prevedibile canone. Spiazzante, immenso, geniale, Sono è l’essenza stessa del cinema, nella sua riproducibilità e nella mise en abîme che coinvolge il farsi e disfarsi dei sui film, dei suoi personaggi, e le numerose possibilità delle vite che li coinvolgono. Con Antiporno il regista nipponico rivisita il Roman Porno, una serie di film di genere prodotti dalla Nikkatsu negli anni Settanta, e ne esce un capolavoro assolutamente anarchico e libertario nonché uno dei suoi film migliori degli ultimi anni. 

Anche la giuria del concorso, presieduta da Ed Lachman - artista e direttore della fotografia per registi come Haynes, Soderbergh, Altman, Sofia Coppola, Herzog, Wenders, Schlöndorff, Godard - ha premiato l’unico film dell’estremo oriente del Concorso internazionale lungometraggi, assegnando i premi come miglior film  e migliore sceneggiatura di Torino 34 all’opera prima The Donor, del regista cinese Qiwu Zang. La motivazione ufficiale della giuria rende pienamente merito alla composizione magnificamente orchestrata di questo film: “Siamo onorati di assegnare il premio a un film così meravigliosamente penetrante e così poetico nella narrazione, nella performance, nella comprensione del mondo in cui proviamo a vivere. Pensiamo di aver trovato una nuova voce del cinema cinese che ci arricchirà tutti.”.

Da un’opera prima ad un altro nome filippino ormai riconosciuto: Brillante Mendoza con Ma’ Rosa ritorna a Manila per inseguire affannosamente la lotta per la sopravvivenza di una famiglia di disperati. E di disperazione sempre si parla in Ta’ang di Wang Bing, in cui il regista mette in evidenza un fatto sconosciuto: l’esodo verso la Cina della minoranza etnica birmana dei Ta’ang. Due differenti visioni della realtà capaci di forzare l’impalpabilità dello schermo e l’esausta riproposizione di facili scorciatoie verso il consenso.

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