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Vegas: Based on a true story

Regia: Amir Naderi

USA 2008

Emerge sempre un legame inequivocabile nell’opera di Amir Naderi, nel suo incarnare l’autore totale della propria creazione, come endemica necessità dell’esistenza e propaggine materica dell’evoluzione della visione soggettiva. Ogni film compone una sorta di serialità di un sovraracconto che è prima di tutto il viaggio di una personalità apolide e la migrazione di quello squarcio, o lacerazione, prodotta  da quegli occhi che mirano a scavare, perlustrare, toccare la densità dello scarto del significante invisibile al visibile, in grado di manifestarsi attraverso l’esperienza cinematografica. Diviene così, per Naderi, profondamente rilevante la dimensione del reale, inteso come luogo e atto occasionale in cui si ci trova ma non ci si riconosce.

Così era stato per l’Iran all’inizio, poi per New York, e ora per Las Vegas. Un movimento continuo che è anche movimento formale. Vita e creazione sono come vasi comunicanti: la permanenza del regista in questa città è la storia vera del titolo, perché attraverso di essa è stato possibile afferrare le storie che fondano Vegas, elementi cardini di tante vite, passaggi, leggende di un mondo che vuole nascondere contraddizioni e debolezze, ed è allo stesso tempo produttore e consumatore di ossessione.

 

E’ il pensiero ossessivo - non a caso, pensando alla precedente trilogia di New York, com’è evidente fin dai titoli, Manhattan by numbers (1993), A, B, C... Manhattan (1997) e Marathon (2002) - il contenuto portante del film, l’elemento che unisce da subito la famiglia protagonista: per il padre è impossibile tenersi lontano dalle slot machine, per la madre nulla è più importante del proprio giardino, per il figlio dodicenne non si preannuncia un futuro sereno. Per quanto precario, la vita di questa famiglia ha un proprio equilibrio. Le luci degli hotel costituiscono l’orizzonte non solo visivo degli eventi, poiché la casa della famiglia Parker si trova nei sobborghi della capitale, là dov’è vivida la presenza dell’attiguo deserto. E’ infatti la stessa staticità del deserto che nutre la vita di questi personaggi, chiusi in un mutismo rabbioso di insoddisfazione spezzato dall’arrivo di un ex marine che propone una cifra altissima per quell’appezzamento di terreno dall’apparente misero e anonimo valore. 

Naderi sfrutta narrativamente la casualità, lo spirito, l’impulso desiderante, la coazione a ripetere del gioco, che è poi l’emblema  della città, ma in chiave drammaticamente divertente. Tutto nasce e procede e (non) si conclude come una partita di texas hold’em, attraverso piccoli e grandi bui, rilanci, bluff e la combinazione e lo svelamento delle carte. Significativa quindi la dimensione del simbolo e della metafora, e del tempo, che pare perdersi e sfaldarsi con il procedere della ricerca del leggendario bottino nascosto sotto il giardino.

E’ in questo processo di escavazione  e di ricerca di ciò che non è visibile, e si desidera ardentemente, ma non si trova, che si scopre il varco dello sguardo su se stessi. Chiusi nei confini del recinto di casa, e incapaci di superarli, i coniugi si sgretolano come la terra ai loro piedi, si uniscono ad essa diventando un tutt’uno con la polvere, in una sorta di fuga e mascheramento della loro stessa consapevolezza. Il loro vedere non coincide più con la realtà, non può essere più previsto né strutturato. Al figlio, al bambino (ancora una volta, come nel precedente Sound barrier), è affidata tutta la speranza per il futuro, speranza di ricostruzione e superamento dei limiti, della famiglia, della città, dell’ossessione. 

Attraverso quel legame di dipendenza e sudditanza che unisce viscosamente Amir Naderi  ai suoi film, veniamo immersi nella rappresentazione della tensione scenica prodotta dal varco generato dalla manifestazione dell’inconscio. Per questo la povertà dei mezzi espressivi diventa funzionale a questa dialettica: l’immagine appare imprecisa, dissanguata, mancante di definizione, spaesante, realistica, così come può esserlo la narrazione delle pulsioni umane. Ma, per contro, la diegesi percorre invece una linearità classica e consequenziale tipica del racconto tradizionale. Seguendo, in questo senso, proprio quanto accaduto con The Wrestler.

Viene così a configurarsi un rapporto inatteso tra due espressioni del cinema americano moderno. Un rapporto che riecheggia il passato per rielaborare drasticamente il presente sgranellato come sabbia del deserto. 

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