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Torino Film Festival 26

Nelle dinamiche interpretative della partecipazione ad un festival cinematografico, e dunque della visione dei contenuti che ne determinano la struttura che impressiona i ricordi dell’esperienza della visione, non è mai automaticamente decodificabile l’esito del prodotto dell’assorbimento del movimento continuo provocato dalle immagini sullo schermo. A conclusione quindi, si cerca di stabilire e scovare quell’identità intrinsecamente presente nella costruzione di un evento, rassicurante, discorsiva, pacifica, ma fatalmente sfuggente all’effettiva totalità delle suggestioni create dai titoli e dai nomi sanciti nei programmi. 

Un aspetto a suo modo assodato, e prevedibile, che pone però l’attenzione verso l’allontanamento da una pratica centrata sulla totalità, verso la rilevanza della frammentazione, dell’opposizione, della duplicità, e anche dell’antitesi e della contraddizione. Torino 26 è stato un festival in cui ad ogni entrata in sala si palpava la difformità, la distanza, l’innocenza e il desiderio, il sogno e l’attesa, la perdita e la materialità.

E’ stata la seconda e ultima edizione del festival diretto da Nanni Moretti, a cui bisogna riconoscere sicuramente il merito per aver contribuito in maniera non indifferente a catalizzare l’attenzione del pubblico di curiosi e interessati grazie a una selezione di titoli e nomi effettivamente non convenzionali o scontati e in ogni caso autorevolmente capaci di scuotere e scostarsi dal visibile ordinario. 

Numerose le sezioni del festival, e in ognuna di esse è stato possibile scorgere e scoprire qualche frammento di suggestione o estremo incanto, un lembo di (nuovo) ricordo capace di non essere smembrato né più deposto.

Nella selezione ufficiale del Concorso e del Fuori concorso: Nikoli nisva sla v benekte ( We’ve never been to Venice) di Blaz Kutin, Helen di Christine Molloy e Joe Lawlor, Tony Manero di Pablo Larrain, Dixia de tiankong (The shaft) di Zhang Chi, Die Welle (L’onda) di Dennis Gansel, Lat den Ratte Komma in (Let the right one in - Lasciami entrare) di Tomas Alfredson e le ultime opere di Kim Ki-Duk Bi-Mong (Dream) e Jia Zhang Ke Er shi si cheng ji (24 City).

Nel Lo stato delle cose, sezione di lungometraggi dedicata quest’anno alla politica e popolata da storie di ragazzi, “ragazzi che s’interrogano sul significato del loro entusiasmo, delle loro scelte, delle loro follie; ragazzi che si chiedono il perché dell’ordine stabilito delle cose; ragazzi che finiscono spesso per scontrarsi, culturalmente o addirittura fisicamente, con mostri, esterni o interni” è impossibile non ricordare i 190 minuti dell’ultimo capolavoro, sorta di testamento spirituale, di Koji Wakamatsu Jitsuroku: Rengo sekigun - Asama sanso e no michi (United Red Army)

La zona, sezione di ricerca e sperimentazioni, articolata al suo interno da lungo-medio-cortometraggi che conducono lo spettatore nei “tracciati di una realtà eminentemente interiore, di mondi che si agitano al di sotto della superficie apparente degli eventi, nella profondità di spazi e figure scandagliati dalla macchina cinema, facendo ricorso a tutta la sua attuale complessità tecnica ed espressiva” ha dedicato quest’anno una retrospettiva integrale (la prima in Europa) ad un autore sconosciuto del cinema nipponico, Kohei Oguri, “autentico maestro di un cinema che nella distanza della rappresentazione trova i motivi di una straordinaria tensione emotiva e di una sobria pregnanza esistenziale”.

Solo cinque film in quasi trent’anni di carriera: Doro no kawa (Muddy river, 1981), Kayako no tameni (For Kayako, 1984), Shi no toge (The sting of death, 1990), Nemuru otoko (Sleeping man, 1996), Umoregi (The buried forest, 2005). Cinque opere che di rara intensità e poesia visiva, dilatate in un tempo sincronicamente sconfinato, in cui è percepibile il peso di ogni gesto, di ogni sguardo, di ogni moto d’animo dell’uomo e della natura che lo pervade, e del rapporto spirituale che li lega. Perché in fondo tutto il cinema di Oguri è fondato proprio sul vincolo immanente e insolubile tra l’uomo e il proprio ambiente: “i suoi personaggi sono infatti gli abitanti di un paese (il Giappone) che non ha mai smesso di ripensare alla propria storia e alle proprie tradizioni come fonte inesauribile di pura e semplice vita; riti, feste, racconti, miti, declinati nelle varie forme popolari del racconto orale, della festa paesana, del teatro di strada, rappresentano il linguaggio più autentico con cui l’animo umano sa esprimersi, in comunione costante con il proprio spazio vitale (la natura, la terra, la montagna, gli alberi, l’acqua, il vento...)”.

Un cinema basico, dove la parola non può spiegare nulla se non la sua completa abulia di fronte alla potenza delle immagini e dei suoni generati dallo sguardo verso una natura oggetto al tempo stesso di meraviglia e timore. E’ lo stesso regista a dire infatti: “credo che il modo in cui i giapponesi percepiscono la natura sia qualcosa di armonioso e aggregante, un mistero impossibile da capire per l’uomo”.

A completare il programma, le sezioni dedicate ai documentari (lungometraggi internazionali, lungometraggi nazionali e cortometraggi nazionali), le retrospettive complete di Jean-Pierre Melville e Roman Polanski e la rassegna sulla British Renaissance, la rinascita appunto, o meglio, “l’improvvisa e imprevedibile fioritura” del cinema inglese alla fine degli anni ’70 e che per un decennio riaccese l’attenzione della critica e del pubblico verso un cinema dalla carica innovatrice, di scontro sociale e culturale, fortemente localizzato e connaturato in ambienti limitati, là dove più forte era la riprovazione e il malcontento per l’attualità. “La British Renaissance non fu un movimento, né linguistico né politico; i suoi autori provenivano da esperienze (e addirittura da generazioni) diverse, non condividevano ideali né modelli espressivi, unirono le loro forze solo occasionalmente e solo per una serie di coincidenze si trovarono a lavorare tutti nello stesso momento, sugli stessi temi e atmosfere, con la stessa rabbia in corpo”. Si imposero così agli occhi del pubblico registi come Neil Jordan, Peter Greenaway, Michael Radford, Richard Eyre, Derek Jarman, Terence Davies, Bill Forsyth, Sally Potter, Marek Kanievska e scrittori come Hanif Kureishi, Alan Bennett, Ian McEwan e tornarono al cinema autori da tempo confinati nella produzione televisiva come Sthephen Frears, Alan Clarke e Mike Leigh.

E’ chiaro che di fronte a un programma articolato e diversificato, nei generi, nelle forme, negli autori, come quello di Torino 26 sia possibile intraprendere una serie di distinti percorsi di visione, e di analisi di quelle correlazioni invisibili che attraversano le storie e le immagini. Partendo proprio dal rigore nell’estetica delle relazioni di Kohei Oguri, è possibile tendere  direttamente un raccordo verso alcuni tra i film più significativi di questa edizione del Torino Film Festival. 

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